C’è un attore, scrittore, comico e attivista che da diversi anni in televisione si vede molto poco. Probabilmente è troppo intelligente per i palinsesti di oggi e quindi non lo
Ode a Giobbe Covatta, viaggiatore commosso che commuove
C’è un attore, scrittore, comico e attivista che da diversi anni in televisione si vede molto poco. Probabilmente è troppo intelligente per i palinsesti di oggi e quindi non lo chiamano. Non sia mai che oltre a una risata strappi al pubblico anche una riflessione. O magari è lui a non volerci andare più in TV, perché quando abiti il mondo “reale” – per lo più in Africa, spendedoti in tantissime iniziative umanitarie – il circo televisivo “feta” decisamente troppo.
Eppure, se vi interessano due dei passatempi più belli che il Signore ha concesso al genere umano – non pensate male sto parlando di ridere e pensare – Giobbe Covatta lo potete intercettare nei suoi spettacoli a teatro oppure potete leggere i suoi libri, sempre vendutissimi a partire da quel “La Parola di Giobbe”, vera e propria bibbia per noi giovanissimi dei primi anni Novanta, fino al più recente “il Commosso Viaggiatore”, uscito qualche mese fa per Giunti. Un testo, quest’ultimo, di quelli che restano, divertente ma “informante”, come nello stile di Giobbe e della moglie Paola Catella, che firma con lui libri e spettacoli da oltre trent’anni.
“Il Commosso Viaggiatore” racconta l’Africa di Giobbe e del suo gruppo di lavoro, cinque amici + una ( Paola o Mama Paula) accomunati dall’amore per il continente nero e dalla voglia di fare del bene. E loro, di bene, ne hanno fatto tanto, contribuendo non poco a migliorare le condizioni di vita di tanti africani, dal Sud del Sudan al Mozambico, dal Kenya all’Eritrea. Attraverso il racconto comico dei tanti viaggi di questa armata Brancaleone composta da guide incasinate, distinti ipocondriaci pieni di tic, ornitologi dai gusti culinari particolari ed altri pazzi assortiti, il libro ci svela scena e retroscena di un continente povero e meraviglioso, diabolicamente sfruttato prima dall’occidente e oggi anche da India e Cina, un continente dove manca tutto tranne la voglia di ridere perché in “svizzera avranno anche gli orologi ma in Africa abbiamo il tempo”.
E quando arrivi alla fine del viaggio e leggi l’ultima pagina, da un lato sei felice di aver imparato qualcosa di piu, dall’altro un po’ ti vergogni di essere occidentale. Ed è giusto che sia cosí. C’è un passaggio dove Giobbe racconta di quella volta in Etiopia mentre girava uno spot con i bimbi per Save The Children, correndo libero insieme a loro. Una mamma di quei piccoli gli si avvicinò e, con estrema gentilezza, candidamente e quasi sottovoce, gli chiese di non farli correre troppo perchè poi gli veniva fame e da mangiare non ce n’era. Sí, avete letto bene.
Ora corriamo a lamentarci delle tante “ingiustizie” subire dai nostri figli, se ci riusciamo…
Nota a margine: ho scoperto che i bracconieri vendono il corno di rinoceronte a 13mila dollari al chilo, soprattutto in Asia dove sono convinti che curi un po’ di tutto, dal cancro ai problemi d’erezione. Per la stupidità, invece, pare non esserci rimedio.
Nota a margine 2: sapere che Giobbe e i suoi sono ancora in giro a me lascia una certa tranquillità. Sempre avanti, ragazzi!!! Continuate a remare in direzione ostinata e contraria e restate, come diceva sempre il mio amico don Gallo, dei trafficanti di sogni.
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Jam Master Jay dei Run DMC: un omicidio chiarito dopo quasi 20 anni
di Federico Traversa
Lo scorso 30 ottobre sono passati vent’anni. Vent’anni esatti dal brutale assassinio di James Mizell, per tutti Jam Master Jay, il cervello del gruppo rap più celebre della storia: i Run DMC.
C’è stato un periodo in cui l’hip hop era davvero qualcosa di nuovo e rivoluzionario. Parliamo di parecchio tempo prima dell’avvento dei vari Eminem, Jay-Z, Kanye West e compagnia. E un po’ prima pure di Pac, Snoop e Biggie. Il nostro viaggio nella storia delle rime parte infatti più lontano, per la precisione nella New York dei primi anni Ottanta, quella di un trio di ragazzi afroamericani dallo stile tirato e potente. Tre pazzi scatenati dal look strano, che indossano cappelli Fedora, tute da ginnastica e Adidas senza lacci in onore dei detenuti, a cui i lacci delle scarpe vengono sequestrati dalle guardie prima di essere assegnati alle loro celle. Il trio in questione si chiama Run DMC ed è stato uno dei primi gruppi rap ad affermarsi e far muovere il culo al grande pubblico, rappresentando un autentico prototipo tanto del rap impegnato, quanto del gangsta rap e del crossover.
Il gruppo è composto da due MC: Run, al secolo Joseph Simmons, e DMC, al secolo Darryl McDaniels, a cui successivamente si aggiunge il DJ Jason Mizzell, per tutti Jam Master Jay.
Ed è proprio con l’ingresso di quest’ultimo che il gruppo fa il botto. Jay è uno dei pionieri dello scratch ma non solo: è anche un musicista. Un musicista vero. Ha suonato sia il basso che la batteria in diversa garage band e con i Run DMC ama sbizzarrirsi alla tastiera.
Nel 1983 il trio pubblica il suo primo singolo, It’s Like That, e il successo è inaspettato quanto clamoroso. Il brano raggiunge la top 20 della classifica Billboard dedicata ai dischi R’N’B.
Dopo l’uscita di Hard Times, una traccia celebrativa dedicata all’abilità ai piatti di Jam Master Jay, nel 1984 esce la storica Rock Box, il cui video è il primo di un pezzo hip hop a venire trasmesso da MTV. Il brano contiene pesanti riff di chitarra che indicano inequivocabilmente la passione del gruppo per il crossover. Con simili premesse non sorprende che l’omonimo “Run DMC”, album d’esordio del trio, sia il primo disco rap a vincere il disco d’oro.
Il successivo “King of Rock”, pubblicato nel 1985, fa dei Run DMC i rapper più popolari e influenti degli Stati Uniti. Come suggerisce il titolo, il gruppo ama far confluire riff di chitarre elettriche e pesanti fill di batteria nei propri lavori, il che per i tempi è qualcosa di assolutamente rivoluzionario. Seppur ormai famosissimi e apprezzati, i Run DMC entrano nella leggenda solo grazie al successivo lavoro, “Raising Hell”, uno dei dischi rap più famosi di sempre. Partiamo dal primo singolo, My Adidas, dedicato alla loro marca di calzature preferita. Questa canzone storicamente cambierà tante cose. Tanto per cominciare, da quel momento le Adidas diventano un accessorio obbligatorio per gli appassionati del genere hip hop, ma non è tutto: la canzone è il primo esempio di completa identificazione dei rapper con un capo d’abbigliamento o una marca di calzature, soluzione che negli anni verrà ripetuta da tanti MC fino a diventare consuetudine. Al punto da far drizzare le orecchie alle aziende citate nelle canzoni, che cominceranno a lanciare gli stessi rapper di successo come stilisti di una propria linea d’abbigliamento. E saranno sonanti denari.
Ma la massima popolarità per Jay e soci arriva con un altro immortale passaggio: Walk this Way, una cover realizzata a modo loro dell’omonimo pezzo degli Aerosmith. Incisa proprio con Steven Tyler e Joe Perry, la canzone diventa il primo successo crossover della storia, rivitalizzando la carriera agli Aerosmith, che all’epoca stavano attraversando un periodo di declino e problemi personali importanti. Walk This Way spopola sulla neonata MTV riportando la rock band di Boston al centro del music business e nel cuore della gente. In quanto ai Run DMC è l’apoteosi: “Raising Hell” si porta a casa tre dischi di platino e diventa il più grande successo del trio newyorkese.
Ormai conosciuti e apprezzati in tutto il mondo i tre partono per un lungo tour nei palazzetti. E iniziano ad arrivare i problemi. Prima due bande rivali si scontrano a un loro concerto in una rissa furibonda che lascia sul campo oltre quaranta feriti. Qualche settimana dopo, sempre durante un loro concerto, un uomo uccide un ventunenne con un calcio in testa. La polizia sostiene che l’assassino sia un membro della security dei Run DMC. Il gruppo smentisce categoricamente rigettando ogni accusa ma il danno è fatto. I media iniziano ad attaccare il trio, reo di comporre musica violenta e inadatta al grande pubblico di giovanissimi che compra i loro dischi. Seguono anni difficili per il gruppo, con dischi meno ispirati, problemi di alcol e droghe, dissapori interni e distrazioni varie. All’infelice quadretto si aggiungono parecchie disavventure legali: Simmons viene accusato di aver violentato una ragazza mentre McDaniels sprofonda completamente nell’alcolismo.
L’unico a mantenere un profilo basso e lontano dagli scandali è proprio Jam Master Jay, che approfitta del periodo di pausa con il gruppo per fondare la Jam Master Jay Record, con cui si dà un gran da fare per lanciare nuovi rapper di successo.
Dopo una pausa e un necessario chiarimento, i Run DMC tornano in pista nel 1993 pubblicando l’album “Down with the King” che ottiene l’ennesimo disco d’oro. Seguiranno altri dischi, alcuni di successo altri meno fortunati, esperienze soliste, riconoscimenti vari e tanto amore da parte del pubblico per un gruppo che attraversa gli anni ‘90 come una vera e propria leggenda del rap a stelle e strisce, a cui chiunque desideri cimentarsi col genere deve pagare dazio. Delle star che nel 2002 hanno l’onore di lasciare le loro impronte nella Rock and Roll Hall of Fame, come segno della loro influenza sulla storia della musica. Così, mentre la raccolta “High Profile/The Original Rhymes” ne celebra la carriera, i Run DMC partono in tour con gli Aerosmith e Kid Rock e pensano a un nuovo disco d’inediti. Dopo i problemi del passato tutto sembra filare finalmente liscio, sereno, alla grande. Non c’è una nuvola all’orizzonte ma solo un futuro ricco di successi da scrivere.
Poi però ammazzano Jam Master Jay e tutto finisce, rapido come era iniziato. È il 30 ottobre del 2002 e sono le 19:30. Jay è nel suo studio di registrazione di Merrick Blvd, nel Queens, a New York, a lavorare ad alcune basi. Dopo aver sputato sangue su dei campionamenti decide di rilassarsi giocando alla PlayStation con l’amico Uriel “Tony” Rincon.
Jay è armato quella notte, la sua pistola è sul divano mentre i due giocano a Madden NFL 2002. Ma poi Lydia High, l’assistente di Jay, entra nella stanza per discutere alcune cose e quando vede la pistola, chiede al boss di farla sparire perché le fa impressione.
All’improvviso due persone entrano nello studio. Una volta dentro tirano fuori le pistole e iniziano a far fuoco. Rincon viene colpito alla gamba sinistra. Jam Master Jay non è così fortunato: una pallottola gli si conficca in testa.
Secondo quanto raccontato da Rincon al New York Daily News, un momento prima dell’aggressione il suo cellulare squilla. Mentre si allunga dietro il divano per recuperarlo, riferisce di aver sentito dei passi. Con le spalle alla porta, sente Jay esclamare: “Oh merda!”, e poi risuonano due spari. Uno colpisce Rincon alla gamba e l’altro Jay alla testa, ferendolo a morte.
“Sapevo che [Jay] se n’era andato. Non si muoveva, niente”.
Rincon non vede la faccia dell’assassino ma insiste sul fatto che Jay deve averlo riconosciuto, altrimenti non lo avrebbe fatto avvicinare così tanto. “Se ci fosse stata animosità immediata o se ci fosse stato un problema, non sarebbero stati così vicini”, ha concluso Rincon. “Vorrei aver visto… Ho detto alla [polizia] tutto quello che potevo. Vorrei poter dire loro di più”.
E così finisce la vita di Jason Mizzell, per tutti Jam Master Jay. Aveva appena 37 anni. E così finisce pure la corsa dei Run DMC che, privati della loro anima strumentale, decidono di sciogliere la band.
Sì, ma chi ha sparato? E soprattutto perché?
Perché dopo Tupac e Notorious un altro gigante del rap viene fatto fuori in quel modo? Due teorie, entrambe possibili, vanno per la maggiore.
Partiamo dalla prima.
Qualche anno prima dell’omicidio di JMJ, un giovane rapper sta facendo parlare parecchio di sé nel Queens. È uno spacciatore dalla famiglia disgraziata che però ha un flow potentissimo. Si chiama Curtis James Jackson III. A Jay quel ragazzo piace parecchio e lo mette sotto contratto con la sua etichetta. Però il giovane ha un problema: nelle sue demo fa nomi e cognomi di gente della strada che sarebbe meglio non pronunciare mai. Gente che ha in mano tanto il giro della musica rap quanto quello della droga, che spesso coincidono nel ghetto. Ma Curtis se ne frega e rappa di tutto, senza censure. Parla pure di Kenneth “Supreme” McGriff, il boss della zona, un criminale con interessi nella musica e un giro di crack da svariati bigliettoni. La cosa al boss non piace per niente e nel 2000 fa sparare a Curtis una gragnola di pallottole per farlo fuori. Ma il giovane non muore e, dopo essere stato in bilico fra la vita e la morte, torna a rappare ancora più duro di prima. Si dà anche un nuovo nome d’arte, 50 Cent, che è esattamente il costo delle pallottole che lo hanno quasi ucciso.
Supreme non ne è contento e, mentre pianifica un nuovo attentato al rapper, lancia l’ordine a tutti i produttori della zona di fargli terra bruciata intorno e non lavorare più con lui. Ma Jam Master Jay si ribella. 50 Cent ha talento, è un cavallo di razza e lui vuole continuare a produrlo. A questo punto Supreme ordina l’omicidio del DJ dei Run DMC. Storia finita. Un’ipotesi possibile ma assai poco probabile in quanto 50 Cent ha lasciato la JamMaster Jay Records da ben due anni per accasarsi alla Columbia (che ben presto lascerà per unirsi alla Shady Records di Eminem, con la quale otterrà successo planetario) ed è difficile pensare a una ritorsione di Supreme verso Mizell dopo così tanto tempo.
Ora la seconda ipotesi. Nel corso delle indagini portate avanti dalla polizia, Lydia High identifica uno dei due assalitori. Si tratta di Ronald Washington, un noto criminale che in seguito verrà arrestato per rapina e confiderà di aver preso parte all’omicidio di Mizell su commissione. Ma chi è il mandante? Secondo il New York Daily Ness sarebbe il produttore Curtis Scoon, un amico di JMJ. Il motivo alla base del gesto sarebbe in un debito che il DJ non ha saldato. Scoon, tuttavia, nega il proprio coinvolgimento e gli inquirenti non trovano indizi contro di lui. Altri sostengono invece che JMJ sarebbe stato tradito dai suoi stessi amici presenti in studio, ma nessuna prova in questo senso è mai emersa e si resta nel campo delle semplici illazioni.
La svolta arriva solo nel 2020, quando il procuratore capo del distretto orientale di New York incrimina formalmente due uomini: Karl Jordan Jr. e Ronald Washington, già reo confesso, per l’omicidio di Jam Master Jay.
Secondo la tesi accusatoria, poco tempo prima di essere ucciso il musicista avrebbe acquistato un grosso quantitativo di cocaina a fini di spaccio insieme a Jordan, Washington e altre persone di cui non si conoscono le generalità. Per motivi non chiariti, Jay avrebbe poi deciso di escludere Washington dall’affare, e questo avrebbe portato all’omicidio. Nello specifico, a sparare il colpo fatale sarebbe stato Jordan.
“Era importante per noi allora e rimane estremamente importante per noi oggi fare giustizia per la vittima, la sua famiglia, gli amici e la comunità che si è preoccupata così tanto di quegli eventi”, ha detto in conferenza stampa il procuratore Seth D. Du Charme, aggiungendo che le forze dell’ordine non hanno mai smesso di lavorare a quello che veniva definito a tutti gli effetti un cold case.
E così, forse, lo spirito di Jam Master Jay trova finalmente un po’ di pace.
* Il pezzo che avete appenna letto è tratto dal mio libro “Rap criminale – Tupac, Biggie e gli altri martiri del gangsta rap”. Chi è interessato può acquistarlo a questo link: https://amzn.to/3wCNgps
Pete Doherty il libertino fedele ai propri demoni
di Federico Traversa
È uscito da qualche giorno anche in Italia, “A Likely Lad”, l’autobiografia di Pete Doherty scritta insieme al giornalista inglese Simon Spence.
Devo dire che il libro mi ha sorpreso, come sa fare solo la vita. È pieno di così tante contraddizioni da risultare, alla fine, assolutamente coerente con il suo protagonista.
Il vecchio Peter è davvero uno strano personaggio: naif, maledetto, bohémien, inaffidabile, estremo, poetico, scoraggiante. Un po’ “Rimbaud dell’indie-rock” come lo ha definito la rivista Mojo, un po’ una specie di Mark Ranton in fuga verso Amsterdam alla fine di Trainspotting. Ed è davvero spiazzante realizzare che lo stesso musicista che con i suoi Libertines ha riempito e tuttora riempie i palchi di mezzo mondo, abbia collezionato quasi più arresti di Vallanzasca e si sia ritrovato implicato in beghe serie, che vanno da un suicidio/omicidio mai del tutto chiarito al furto con scasso in casa di uno dei suoi migliori amici. Un quadro che quasi fa sembrare i suoi eterni problemi con l’eroina – che poi sono la causa dei veri o presunti guai sopra – poco più di una marachella.
In mezzo a questa narrazione degna di un novello Jim Carroll, si erge la persona Peter Doherty, una figura decadente, complessa e a suo modo romantica; un uomo innamorato della fama e della poesia che ha sempre e comunque cercato di mettere la sua arte “sopra ogni cosa” .
Il suo libro, lo confesso, mi è piaciuto tanto, così come negli anni ho appezzato sia la musica dei Libertines che dei Babyshambles e del Doherty solista. La Londra dei primi anni 2000 – vorticosa e affascinante – viene fuori dalle pagine di “A Likely Lad” in tutta la sua intensità, con Peter che non fa sconti a nessuno, a partire da sé stesso. E vuota il sacco sul rapporto rovinoso con le droghe, racconta liti e botte con l’amico e compagno di band Carl Barât oppure quelle con la top delle top ed ex fidanzata super glamour Kate Moss. Ma c’è spazio anche per i racconti delle lunghe serate con l’amica di musica e pippette Amy Winehouse, le tante giornate passate in prigione, i viaggi intorno al mondo per sfuggire alla schiavitù dell’ago, i figli capitati lungo un cammino sentimentale tortuoso, fino all’apparentemente ritrovata sobrietà di un paio d’anni fa, subito prima dello scoppio della pandemia.
Non credo di esagerare nel definire il libro, con tutte le profonde contraddizione del suo autore, uno dei più vibranti e avvincenti memoir rock usciti negli ultimi anni.
Qualche settimana fa Doherty è passato dall’Alcatraz di Milano con i Libertines, in tour per festeggiare i vent’anni di “Up The Bracket”, il disco della consacrazione. Sul palco Pete è apparso parecchio imbolsito ma tutto sommato in forma soprattutto al netto di una condotta di vita non esattamente da atleta. Indossava una felpa del Venezia calcio, chi sa perché è pregato di dirmelo, ed è sembrato divertirsi un mondo. Forse il Rimbaud dell’indie Rock ha finalmente trovato la sua sintesi?
Di sicuro fino ad oggi è stato fedele ai propri demoni.
Giorni Tossici: Da Sanpa a Christiane F, da Fabio Cantelli a Nikki Sixx, la cultura dell’eroina è tornata di moda?
Di Federico Traversa
Pare che nel 2021 l’eroina sia tornata di gran moda, perlomeno in tv o negli scaffali delle librerie. E lo ha fatto con una serie di proposte interessanti e profonde, nonostante le loro innegabili diversità. Prima è stata la volta di Sanpa, la docu-serie sulla celebre e controversa comunità fondata da Vincenzo Muccioli, di cui ho già ampiamente parlato su questo spazio (https://www.chinaski-edizioni.com/2021/02/sanpa-luci-e-ombre-di-vincenzo-muccioli/). Poi è uscito “Sanpa – Madre amorosa e crudele”, illuminante opera letteraria del dandy narcoticamente cosmico Fabio Cantelli, che di Muccioli e della sua comunità è stato ospite, portavoce e grillo parlante. Un testo poetico, visionario, crudo e scintillante quello di Fabio, tipico degli estrosi senza pelle, che sentono troppo e forse male, ma quando quel troppo lo trasmettono agli altri sanno emozionare e affondare nella carne come schegge di vetro. Quindi è arrivata su Amazon Prime la serie remake “Christian F e lo Zoo di Berlino”, quarant’anni dopo il celebre film tratto dall’altrettanto celebre libro, ossia la storia di questa ragazzina tedesca sedotta, insieme ai suoi giovanissimi amici, dalla “quiete sotto la pelle”, parafrasando ancora Cantelli. Una serie strana, che all’inizio quasi infastidisce nel “glamourizzare” l’eroina e i suoi cliché ma andando avanti con le puntate trova una sua cifra espressiva che riesce a emozionare e disturbare – sospetto più noi negli “anta” che i ragazzi che oggi hanno l’età che allora aveva Christiane – ma di certo non lascia indifferenti. E poi, last but not least, c’è lui: Nikki fottuto Sixx e suoi “The Heroin Diaries”, che abbiamo riportato in Italia per un’edizione del decennale più ricca e aggiornata trovandoci, un po’ a sorpresa, tra le mani un best seller, che sta persino superando il già incredibile successo della storica prima edizione.
La cosa mi riempie di gioia perché si tratta di un volume di rara intensità, assolutamente unico nel suo genere, uno di quei libri che se ti capita di leggere poi te lo ricordi tutta la vita. Ancor più sorprendente è che a scrivere una così innovativa opera letteraria sia stato il bassista e leader di una delle rock band più sregolate, pazze e sfrontate della recente storia della musica: i Motley Crue. Voglio dire, un libro di tale profondità te lo saresti aspettato da un Bob Dylan, un Jim Morrison o, che so, un Eddie Vedder. E invece Nikki ha stupito tutti, a partire probabilmente da se stesso. “The Heroin Diaries” è, per certi versi, il libro giusto al momento giusto. Definito dalla stampa americana “uno dei memoir rock più belli di tutti i tempi”, è entrato direttamente in top ten nelle biografie più vendute anche qui in Italia, tallonando titoli blockbuster come quelli di Obama e Carlo Verdone Una cosa impensabile per una pubblicazione di questo tipo. Ma non è per questo che si tratta del libro giusto al momento giusto. Vedete, in un periodo in cui si sta tornando a parlare, e tanto, di eroina, i diari di Sixx rappresentano una testimonianza brutalmente onesta e sincera per comprendere le dinamiche mentali che si agitano dentro chi soffre di una qualche dipendenza. E vedere che a cadere sono anche rockstar miliardarie protette dal paracadute dei soldi e della fama, rende il tutto ancora più sinistro e pericoloso. Un monito importante per evitare di fare cazzate. Quando una rockstar miliardaria ti racconta che, mentre tutto il mondo lo ama alla follia e affolla i suoi concerti, lui se ne sta nascosto nello sgabuzzino in paranoia, con un ago del braccio, armato fino ai denti e vedendo mostri uscire dai muri, capisci forte e chiaro che il party con la roba è un gioco sempre a perdere, anche se ti chiami Nikki Sixx, ha il conto in banca a nove zeri e file di ragazze stupende che vogliono solo sparpagliare i capelli sul tuo ventre.
Annovero certamente questo libro tra le letture più brutali, appassionate e, passatemi il termine, sconvolgenti che mi sia capitato di leggere. E sono felice che oggi sia diventato un testo fondamentale per il percorso di recovery di molti, a partire da Nikki, che ormai è pulito da oltre 15 anni e nel libro racconta delle tante persone che negli anni gli hanno confessato di aver incominciato il proprio percorso di recupero proprio dopo la lettura del suo libro.
Non so se vedere il documentario su Muccioli, la serie sui ragazzi dello Zoo di Berlino oppure leggere i libri di Cantelli e Sixx possa aiutare davvero chi è invischiato nelle varie dipendenze. Ma di una cosa sono certo: aiuta tutti noi a capire un po’ più a fondo il mondo delle tossicomanie, a partire dalle dinamiche che le abitano e regolano. Che non è cosa da poco.
E poi, Cantelli e Sixx scrivono da dio.
L’Inter, i 30 mila in piazza e il saggio nella grotta: Pazza Italia, amala…
di Federico Traversa
Da quando è iniziata questa pandemia, siamo stati chiamati a gestire la nostra libertà passando attraverso la maglia stretta delle restrizioni e utilizzando la bussola del buon senso e della pazienza.
E questo perché, 3 milioni di morti nel mondo sono un numero intollerabile. Ho perso un persona cara meno di un anno fa ed è stata una tragedia; moltiplicare questa sofferenza per 3 milioni di volte porta un dolore non facilmente sopportabile.
Una piccola premessa: da anni in questo paese “qualcosa” – chiamiamola mala politica, incompetenza, corruzione, mal governo, sistema corrotto, fate voi – si mangia gran parte delle risorse comuni, portandosi a casa anche agli avanzi. Per questo non siamo stati in grado di sostenere con soldi veri – non elemosina – le tante attività costrette alla chiusura dal lockdown. E sempre per questo, da qualche giorno si è deciso di riaprire tutto invece di aspettare la conclusione di almeno una buona parte della campagna vaccinale. Ci sta, nella vita fai quello che la tua condizione ti permette. E la nostra, di condizione, rasenta le pezze al sedere. Il presupposto affinché tale scelta funzioni, tuttavia, è che le persone si affidino a quel buon senso di cui parlavamo all’inizio, evitando comportamenti che possano far salire nuovamente la curva dei contagi, con conseguenti nuove chiusure, ennesimo collasso del sistema sanitario e sempre più morti.
Ora, a me non piace girare con la mascherina, credetemi. Mi da fastidio, irrita la pelle e mi rovina il look da ultra-quarantenne stropicciato che tanto amo. Eppure me la metto sempre quando esco, è una questione di rispetto. Non mi sento un rivoluzionario a toglierla, mi sento un imbecille irrispettoso a non metterla. E ancora: non mi piace vedere mio figlio imbavagliato, vorrei vederlo libero di sputacchiare la sua emozione addosso al mondo come facevo io alla sua età. Però faccio in modo che se la metta e – grazie a tanta fortuna ma anche all’attenzione da parte sua, dei suoi compagni e degli insegnanti – la sua classe fino ad ora si è fermata una sola settimana in tutto l’anno, facendo lezioni sempre in presenza.
Non vivo da recluso. Esco, vado in spiaggia, in campagna, cammino ogni giorno, stando però attento a non infilarmi in situazioni affollate, perché in questo momento non è il caso. Piccole attenzioni per cercare di aiutare, tanto me quanto il mondo, a tornare a una parvenza di normalità. Comportamenti che probabilmente non basteranno a non contagiarmi se poi, quando sono in coda al supermercato, il tipo dietro di me mi sta a 20 cm abbassandosi la mascherina sotto il naso o se la riapertura delle attività per “gravi motivi di miseria” viene vista dal mio prossimo come un liberi tutti e “in culo al coronavirus”. Comunque, nel dubbio, cerco di fare il mio. In tanti lo fanno. Sacrifici, piccoli o grandi, che in questi mesi hanno toccato tutti seppur, questo va riconosciuto, non nello stesso modo. Ma non è questo il punto. Il problema è un altro.
Ieri l’Inter ha vinto il campionato. E allora, ciao ciao buon senso. 30mila in piazza a festeggiare lo scudetto, assembrati, senza mascherina, abbracciandosi e sputandosi addosso i nomi dei giocatori che meritatamente hanno raggiunto un così importante obbiettivo (fosse stata un’altra squadra a vincere, sia chiaro, sarebbe stato lo stesso). Tutti in piazza, tutti a far festa, che tanto “andrà tutto bene”… e ora diglielo a ristoratori e albergatori alla canna del gas, musicisti e lavoratori dello spettacolo alla fame, baristi… spiegate alla gente normale il metro di distanza, il disinfettare tutto, la DAD per gli studenti, i cinema chiusi, i concerti che non si possono fare…
Ma non è di questo che voglio parlare. Il senso di quello che desidero comunicare è tutt’altro. Oggi, ancor più di ieri, capisco che Buddha, Shankara, Maharishi e i tanti saggi che negli anni mi hanno nutrito con i loro insegnamenti avevano ancor più ragione di quanto pensassi. Finalmente capisco cosa voleva dire Terzani quando parlava di isolarsi dal mondo per riuscire a capire la vita. Adesso mi è chiaro perché Buddha non era un rivoluzionario, o perché molti mistici della storia se ne stavano per conto loro, apparentemente fregandosene delle ingiustizie sociali. Da dentro una grotta o nascosti in un ashram ai loro seguaci dicevano solo “medita, cerca le risposte dentro te stesso, comprendi e governa la tua mente, scopri chi sei”.
Avevano ragione. Ai 30 mila imbecilli di ieri, al tipo che se ne frega del Covid perché pensa sia una montatura fatta ad arte da quelli che hanno costruito il 5G, o al politico che si vende il proprio paese per quaranta denari, non lo cambi spiegandogli le cose o scendendo in piazza a manifestare. Se però cambi te stesso, diventi immune alla sofferenza, impermeabile a paura, avidità, ingiustizie e pene (ma coltivando sempre la compassione), lui certamente resterà sé stesso, ma un sé stesso divorato dall’invidia. Invidierà la tua calma, la tua pace interiore, il tuo distacco, il tuo equilibrio. Non potrà comprare queste qualità con il denaro né ottenerlo con una scazzottata. Ma le desidererà ardentemente.
E allora si convincerà a fare quello che fai tu per poterti assomigliare.
Adesso capisco cosa intendeva dire Gandhi con “cerca di essere il cambiamento che vuoi vedere nel mondo”. Ora so quanto possa essere più salutare chiudersi a meditare in una grotta o sulle cime di un monte che urlare a squarciagola in una piazza gremita “i campioni d’Italia siamo noi”.
Pazza Italia, amala…
Perchè si soffre?
di Federico Traversa
Pineta di Arenzano, riviera ligure. È un caldo ma non afoso pomeriggio d’estate e sono seduto nel patio della casa di Giulio Cesare Giacobbe.
Alla mia destra un Buddha di teak ci osserva benevolo, mentre due grossi alberi ombreggiano una bella fetta di giardino.
Come concordato, oggi inizia la mia intervista col “Buddha”.
Un po’ emozionato, d’altronde non mi capita tutti i giorni di raffrontarmi con personaggi storici, parto con la prima domanda: il motivo per cui soffriamo.
È incredibile se ci pensiamo, ma di persone completamente serene, al mondo, se ne incontrano veramente poche. Anche chi ha tutto, ma proprio tutto, è solito lamentarsi perché gli manca qualcosa.
Ricordo che da piccolo notai questa perenne insoddisfazione negli adulti e feci una specie di sondaggio per cercare di comprenderne il motivo. Evidentemente avevo l’indole del curioso rompiscatole già allora.
Per alcuni mesi domandai a qualsiasi adulto incontrassi se fosse felice o meno. E tutti mi rispondevano con una certa sincerità. Vai a capire perché: sarà stata l’innocenza dei miei otto anni. Ebbene non ne trovai uno che mi dicesse: “Sì, sono felice, sereno e appagato”.
A tutti mancava qualcosa, oppure avevano paura di perdere quello che avevano faticosamente ottenuto. Desideri inappagati e paura di eventuali mancanze. A volte entrambi. Da uscirne pazzi.
Per questo, sebbene la mia prima domanda al Prof potrà a una prima occhiata sembrare banale, a ben vedere non lo è per niente. L’uomo si picchia con questa risposta da quando ancora si aggirava per la giungla con una clava in mano mentre la moglie rassettava la grotta che, si sa, i pipistrelli portano malattie.
Dunque… perché soffriamo?
Secondo il Buddha si soffre per un errore di conoscenza, perché si crede che esistano cose che rimangono uguali a se stesse nel tempo.
Si crede permanente ciò che in realtà è impermanente: la mamma sempre affettuosa e piena d’amore; il marito sempre fedele e innamorato; il conto in banca sempre in attivo, la moglie sempre servizievole e disponibile; la salute sempre perfetta, i figli sempre rispettosi e obbedienti.
La realtà è che non esistono cose, persone o situazioni che rimangono uguali a se stesse.
Noi non viviamo in un universo statico ma in un universo dinamico, dove tutto cambia continuamente.
Credere nella permanenza ci porta a soffrire perché conduce a uno scontro continuo con la realtà, una realtà che ci mette di fronte al fatto che niente è per sempre.
E allora soffriamo.
L’unico modo per non soffrire è accettare il cambiamento.
Accettare il mondo com’è, diverso in ogni momento.
Il segreto della felicità è molto semplice: godersi quello che c’è e non pretendere quello che non c’è.
Però non lo fa nessuno.
Quindi sono tutti infelici.
Se seguissimo tutti l’insegnamento del Buddha, ciò non accadrebbe.
Bisogna accettare l’impermanenza.
Certo, l’impermanenza ci obbliga ad accettare la mancanza di punti di riferimento.
Occorre non essere attaccati a nulla, essere capaci di vivere nell’attimo, nel qui ed ora.
È il “carpe diem” di Orazio.
Per alcuni è dura, lo so.
Per quelli che sono abituati ad accumulare beni, che vivono in funzione del futuro, è molto difficile vivere nel qui ora.
Ma è possibile.
Vi sono persone che lo fanno naturalmente.
Che in modo naturale accettano la realtà e la sua precarietà.
Basta imitarle.
Il lasciarsi andare alla realtà, smetterla di rifiutarla, anzi ammirarla, goderla, è il segreto della felicità.
Certo, so che si può obiettare che nella realtà c’è l’ingiustizia e che il non ribellarsi all’ingiustizia comporta la rinuncia a voler cambiare il mondo, alla rivoluzione.
Ma qui non parliamo di rivoluzione sociale, bensì di rivoluzione individuale.
Il buddhismo non è fatto per i rivoluzionari, per i condottieri, per i conquistatori.
Il buddhismo è fatto per la gente comune.
Per la gente che soffre e che non vuole soffrire più.
Che vuole essere felice.
Vuoi essere felice?
Vuoi rivoluzionare la tua vita?
Non la società ma la tua vita.
Accetta la realtà.
E il suo continuo cambiamento.
Tratto da Intervista Col Buddha di Federico Traversa, edito da Edizioni il Punto d’Incontro
UNA VITA IN CUI TI RICONOSCI
di Federico Traversa
Lavoro perché lavorare mi rende libero, indipendente, e in pace con la mia coscienza. Non lavoro per arricchirmi, tenere ritmi da infarto e passare la vita a rincorrere numeri e algoritmi che qualche economista ossessivo compulsivo ha partorito per sopravvivere alla propria ansia aggiungendo altra ansia. Lo ripeto: lavoro per essere libero. Libero di trascorrere del tempo con le persone che ho scelto, e anche con quelle che non ho scelto. Libero di vedere il sole caldo duettare con la magia del mare, che quando i raggi si stendono sul filo dell’acqua e lasciano guizzare la luce fra le increspature delle onde, c’è da perdere il respiro. Lavoro anche per i bisogni, certo, ma cerco di tenerli a un regime minimo: un tetto dignitoso sopra la testa, le provviste necessarie e la possibilità di spostarmi. Delle eccessive comodità m’importa poco. Dei vestiti ancora meno. In quanto agli oggetti di valore, ne conto tre. Un piccolo Buddha di terracotta con la testa incollata perché i miei figli l’hanno decapitato – prezzo di listino 9,90 – e una campana tibetana che mi regalò mia moglie qualche anno fa a natale. Di quest’ultima il prezzo non lo conosco, ma non credo costi più di una ventina d’euro. Il mio scooter vecchio di 10 anni l’ho demolito, che con due bimbi piccoli lo usavo tre volte all’anno. Ho preso una macchina di seconda mano, abbastanza grossa ma distrutta. Come tutti possiedo un telefono e un portatile con cui lavoro, il primo di seconda mano, il secondo nuovo. Dentro c’è tutto il mio mondo, che vuol dire musica e libri. Finito. Ciò non significa che non abbia aspirazioni a migliorare le mie condizioni di vita. La sola differenza fra il sottoscritto e quella parte d’umanità descritta da Studio Aperto è che le mie aspirazioni sono legate alla qualità della vita stessa e non all’accumulo di oggetti deperibili come un nuovo cellulare iper tecnologico, la visibilità sociale o un paio di tette modello “guarda come combatto la forza di gravità”. Sia chiaro, non giudico né mi permetto di criticare chi sublima la propria insoddisfazione nell’accumulo di oggetti, attenzioni o trasformazioni fisiche capaci di restituirgli quella sicurezza di cui hanno bisogno per abitare la vita.
Dico solo che non fa per me. Credo che siamo tutti al mondo per conoscere e conoscerci, e per farlo serve essere il più possibile leggeri e liberi, soprattutto di testa. Liberi, ad esempio, di disporre il più possibile del proprio tempo per osservare il mondo e le sue mutazioni, per camminare lentamente lungo strade che non si conoscono mai abbastanza, accordando il proprio respiro al rumore del vento.
Anche perché la vita è insicura, breve e pericolosa. Per quanto giovane e in salute tu sia, rilassati, perché un giorno morirai. Ogni minuto che passa ci avvicina tutti alla tomba. E questo che ci piaccia oppure no. Siamo un lampo brevissimo in un lungo spazio scuro. Brrr, che brutta immagine. Diamone una un po’ più simpatica. Siamo come quei pop-up che appaiono un secondo o due nel nostro computer, e quando ci accorgiamo della loro presenza se ne sono già andati. Alcuni sono belli, luminosi e li notiamo per la loro capacità di brillare. Di altri invece non ci accorgiamo per niente e svaniscono senza che nessuno se ne accorga. Eppure entrambi hanno una cosa in comune: la loro presenza nel monitor del nostro pc è brevissima. Esattamente come la vita di ogni uomo o donna su questa terra.
Possiamo preoccuparci, spaventarci, intristirci per questa ineluttabile condizione ma questo non cambierà le cose. Il tempo passerà e prima o poi moriremo. La cosa strana è che la maggior parte di noi vive, agisce e si preoccupa come dovesse vivere per sempre. Se accettassimo la nostra mortalità, probabilmente della nostra vita ne faremmo un uso migliore. Certamente ci incazzeremo meno. Potremmo arrivare persino a ridere della nostra condizione ‘mortale’ e della comicità dell’universo, prendendo in giro tutti quei matti che si picchiano per possedere questo o quello, dimenticando che siamo arrivati in questo mondo senza niente e senza niente da questo mondo ce ne andremo. E svuotando il più possibile la mente dalla pesantezza dei nostri pensieri, un giorno potremmo addirittura arrivare e giocare con la vita, conoscendo più cose possibili del mondo quanto di noi stessi. Sia chiaro: anche in questo secondo caso il tempo passerà ugualmente. Invecchieremo, ci ammaleremo e moriremo, ma magari non oggi. E allora scopriremo che ci sono anche giorni colmi di gioia, profondità e bellezza, e che quando un giorno smetteremo di essere vivi in questa forma mortale torneremo a ricongiungerci con l’energia che soggiace a tutta l’esistenza, sperimentando forme diverse e più sottili di esistenza. Si viene e si va, come canta quel terribile cantautore emiliano che incomprensibilmente in tanti amate. E si ritorna, aggiungerei. Ma non perdiamoci con inutili elucubrazioni filosofiche. Quello che conta è che siamo qui adesso, chiamati a vivere una vita in cui ci riconosciamo completamente. Che poi è l’unica formula infallibile per non avvelenarsela. Senza paura, nessuna paura. Siamo chiamati a vivere tutte le dimensioni possibili che la vita ci serve giorno dopo giorno, belle o brutte che siano. Molte persone vanno dal proprio confidente spirituale – che sia un prete, un monaco, un mullah o un guru – e spesso chiedono: “Padre la prego mi benedica, faccia che non mi accada nulla”. Concettualmente le capisco, sono un cacasotto patentato, ma se ci ripensiamo un attimo, che diavolo di benedizione è? La vera benedizione è che possa accaderci di tutto. Siamo venuti qui per evitare la vita oppure per viverla?
Se siamo venuti per vivere, la benedizione è che le cose ci accadano. Se invece non vogliamo vivere la vita, che in estrema sintesi è un turbinio di avvenimenti continui, cerchiamoci pure un ponte per lanciarci giù perché stare al mondo senza vivere risulta più penoso che essere già morti.
In estrema sintesi, si vive per vivere e fare esperienza. È tutto molto semplice. Quando sei vivo, vivi. E quando sei morto, muori. Ora respiriamo tutti inseme, concentriamoci sui nostri piedi che fanno un passo dietro l’altro… e andiamo.
I rasta non muoiono: un ricordo di Bunny Wailer
di Federico Traversa
Nel 2009 scrissi Bob Marley in This Life, il mio personale omaggio a Bob Marley, ai Wailers e al roots reggae, indiscutibilmente il genere musicale che più ho amato e maggiormente mi ha influenzato. Per farvi capire, la ditta individuale con cui fatturo gli articoli che scrivo o i diritti d’autore dei miei libri agli editori si chiama Wailers. Quando ero un ragazzino senza il becco di un quattrino costretto ad arrangiarsi con i più merdosi lavori di questa terra – lavavetri negli uffici dell’Ilva, barista, commesso in un negozio di scarpe, operaio in un colorificio, traslocatore – mi rivolgevo all’epica di Bob Marley, Peter Tosh e Bunny Wailer per trovare ristoro ai miei tormenti. Soprattutto quando la disperazione urlava forte e la cima del monte zion sembrava lontanissima, quasi irraggiungibile. Quei tre ragazzi poveri, malmessi, con situazioni famigliari super incasinate ce l’avevano fatta, e pure con stile. Quindi potevo farcela anche io. La loro musica aveva scaldato il cuore degli oppressi, il loro canto era riuscito ad accarezzare la barba di dio, tre “little birds” uguali ma diversi capaci di cantare con grazia la ribellione.
Bob, dei tre certamente il più noto, fu il primo a lasciarci, strappato alla vita da un maledetto cancro nel 1981, ad appena trentasei anni. Sei anni dopo toccò a Peter, l’anima più politica del reggae militante, freddato a quarantatré anni ancora da compiere da un malvivente del ghetto nel corso di una rapina parecchio strana. A tenere vivo il ricordo dei The Wailing Wailers – così si chiamavano in origine – era rimasto solo Bunny, il terzo little bird, quello che aveva lasciato il gruppo perché di girare come un forsennato in tour su e giù per babylon non ne aveva voglia; quello con un rapporto col tempo tutto suo, decisamente più libero e mescolato con la fede, dio, quel “natural mystic flow” che soffia tra gli alberi e gonfia le onde. E infatti dischi non ne ha fatti tantissimi e in tour è andato solo quando andava a lui, preferendo una vita più lenta, in cui potesse riconoscersi completamente. Da sempre impegnato nel sociale e premiato con l’ordine al merito dal governo giamaicano, Neville O’Riley Livingston – per tutti Bunny Wailer o, più affettuosamente, Jah B. – ci ha lasciati qualche giorno fa, per la precisione il 2 marzo, circa un mese prima di compiere 74 anni. Nel 2018 aveva subito un terribile ictus, dal quale si era ripreso non senza difficoltà dopo una lunga riabilitazione. Un nuovo ictus lo aveva colpito nel dicembre del 2020, costringendolo a un nuovo ricovero ospedaliero. Secondo Abijah Asadenaki Livingston – l’unico figlio maschio dei 13 avuti da Bunny e anche lui musicista – il nuovo ictus sarebbe stato causato dal dispiacere e lo stress accumulato per la scomparsa dell’adorata moglie Jean Watt, per tutti Sister Jean, con cui stava insieme da quasi 50 anni. Jean, malata di demenza senile, si era allontanata da casa nel maggio del 2020 e da allora non è stata più ritrovata.
Una fine triste per Jah B, con gli amanti del reggae di tutto il mondo in lutto e Blackheart Man – il capolavoro assoluto di Bunny pubblicato dalla Island nel 1976 – a risuonare simultaneamente nello stereo di noi tutti. Vedere poi, che nei nostri tg nazionali o in un contesto comunque “musicale” come il festival di Sanremo (iniziato proprio il giorno della scomparsa di Livingston) non si sia trovato tempo per salutare uno dei membri fondatori dei Wailers, lo trovo abbastanza vergognoso e di un’ignoranza al limite dell’imperdonabile.
A differenza di Bob e Peter, che ho potuto ammirare solo in video o ascoltare nei dischi, Bunny Wailer ho avuto la fortuna di vederlo di persona, una giornata stralunata e magica che non dimenticherò mai. Mi trovavo alla Reggae University, all’interno del Rototom Sunsplash, senza ombra di dubbio il festival reggae più bello e seguito d’Europa, che allora si teneva ad Osoppo, nel verde più verde, ed era uno spettacolo di balli, tende, musica e colori. Dovevo presentare proprio Bob Marley In This Life e insieme a me c’era il maestro della black music in Italia: mahatma Alberto Castelli.
Quella sarebbe stata l’ultima edizione della manifestazione a tenersi Italia, e dall’anno successivo il Rototom si sarebbe trasferito in Spagna.
Quel pomeriggio incontrai per la prima volta Alberto di persona, l’immancabile basco in testa, gli occhiali da sole e il sorriso caldo di chi, come dice lui, “cerca di vivere elegantemente in circostanze difficili”. Ci lanciammo subito in una bella chiacchierata su Marley, i Wailers, la storia del reggae. Davanti a noi un pubblico di una quarantina di persone. Eravamo già più che soddisfatti.
Poi ci distraemmo un attimo, un aneddoto sul king di qua, uno su Lee Scretch Perry di là, e quando alzammo la testa la sorpresa: il tendone che ospitava la Reggae University era stracolmo, non c’era un posto libero, mentre una marea di gente continuava a entrare restando in piedi. Il gasamento per essere capaci di simili sold out svanì quando ci rendemmo conto del motivo di quella ressa. Dietro di noi stavano – in attesa di iniziare una conferenza che non era stata annunciata ma volata di bocca in bocca grazie al passaparola proprio per evitare troppo afflusso – Chris Blackwell e Bunny Wailer.
“Mamma mia” disse Alberto mentre salutavamo un pubblico molto generoso con noi nell’applauso e incassavamo pure il sorriso benevolo di Chris che, abbronzato, con la camicia di jeans e il cappellino verde militare, ricordava vagamente Vasco Rossi, però un po’ più magro. Ma non lo era. Era invece l’uomo che aveva fondato la Island, lanciato Bob Marley fra il pubblico bianco, messo sotto contratto gli U2 e tanti, tanti altri.
Bunny, vestito interamente di bianco, con bastone d’ordinanza e occhiali a specchio, al contrario sembrava un re che non regalava sguardi e cenni a nessuno, decisamente molto meno affabile dell’ex capoccia della Island. Ma fiero come poche persone abbia visto in vita mia.
La conferenza fra i due fu al fulmicotone. Il pacifico Chris cercava di mantenerla leggera, condividendo ricordi e curiosità divertenti. Peccato che Bunny non fosse di quell’idea e iniziò ad andarci giù pesante, accusando la Island di avergli fregato dei soldi, Blackwell di essere un truffatore, eccetera eccetera. Fu davvero folle e probabilmente anche ingiusto, soprattutto considerando quello che ha fatto Chris per la diffusione del reggae nel mondo, ma Bunny la vedeva così. E sapeva convincerti, con quella voce incredibile, quasi ipnotica nel raccontare storie che sembravano uscire dall’epicentro di una terra fertile, magma di un tempo mitico ormai perduto.
È tristissimo pensare che oggi Jah B non sia più con noi, che quella voce non suonerà più nel mondo e per il mondo. Ma che non si parli di morte, sia ben chiaro. Perché i rasta non muoiono, al limite si confondono col vento che soffia fra i boschi…
Un inchino per l’uscita dal palco di Mr Bunny Wailer.
Sanpa: Luci e ombre di Vincenzo Muccioli
di Federico Traversa
Televisivamente, il maledetto 2020 si è chiuso col botto: Sanpa è una delle serie più avvincenti degli ultimi anni, uno spaccato documentaristico che non fa sconti e, partendo dall’obbiettivo di raccontare la controversa Comunità di San Patrignano, dell’altrettanto discusso fondatore Vincenzo Muccioli, finisce per tratteggiare meglio di tanti libri di storia quell’Italia del recente passato sulla quale, neanche troppo nascosta, è cresciuta quella di oggi.
Nel corso della narrazione vengono fuori le luci e le ombre di un microcosmo salvifico per alcuni e infernale per altri, in cui si intrecciavano vita, morte, dipendenze, interessi economici, violenze, antipatie, amori, e su cui governava lui: Vincenzo Muccioli. Un baffuto e corpulento re senza corona, amato e odiato, che salvava, condannava, puniva e assolveva. Un po’ santone e un po’ santino, risoluto, egocentrico all’eccesso, non sempre limpido nelle sue scelte seppur innegabilmente efficace, Muccioli per un periodo ha rappresentato al meglio quello che la cultura italiana ha ricercato sin dalla sua tormentata unione sotto il vessillo tricolore: l’uomo della provvidenza, quello forte, affascinante, quello che possiamo stare tranquilli che intanto ci pensa lui. Perché l’italiano è da sempre abitato da una terribile retorica: so come andrebbe fatto ma siccome non ne ho voglia trovo chi lo fa al posto mio, possibilmente meglio. Per questo qui da noi più che in altre democrazie, l’uomo della provvidenza ha sempre vinto facile. E mi fermo qui senza sciorinare quante volte è capitato, da Mussolini in poi, non ultimo con il nuovo premier Mario Draghi, su cui fioccano complimenti tout court ed è sparita ogni tipo di critica.
Il buon vecchio Vincenzo Muccioli, per quanto scaldasse il cuore degli amanti dell’uomo forte, era certamente più divisivo. C’era chi lo amava, all’inizio la maggior parte, ma anche chi lo detestava, criticava e se ne teneva alla larga, soprattutto dopo i processi “delle catene” e la brutta storia della spedizione punitiva finita in tragedia, con un orribile omicidio che di fatto puntellò l’ultimo chiodo sulla bara del fondatore di San Patrignano.
Ok, cappello introduttivo finito, ora mi fermo un attimo e scendo sul personale per spiegare un paio di cose, datemi solo una decina di righe. Da quando Sanpa è andata in onda, in tanti mi hanno chiesto se l’avessi vista, cosa ne pensassi, quale fosse la mia opinione su Vincenzo e sulla comunità. Il perché di tanta curiosità sull’umile opinione di un povero Dio come il sottoscritto è presto spiegata: ho collaborato per anni con Don Andrea Gallo, fondatore della Comunità San Benedetto al Porto, il cui metodo riabilitativo era l’esatto opposto di quello utilizzato nella struttura di Muccioli. Ecco, fermiamoci pure qui e perdonatemi se vi deludo ma voglio subito sgombrare il campo e annunciare, persino con un po’ di imbarazzo, che durante la nostra frequentazione non ho mai affrontato in maniera approfondita il discorso della riabilitazione e dei metodi terapeutici delle comunità di recupero con Don Gallo. Certo, abbiamo parlato, e tanto, di dipendenze, delle droghe e delle mafie che sulle droghe lucrano protette da uno stato eccessivamente proibizionista, ma di comunità e di metodologie di recupero molto poco. E non perché l’argomento non mi interessasse ma semplicemente perché Andrea ne aveva già parlato allo sfinimento nei suoi libri, a partire dall’imprescindibile “Il Cantico dei Drogati – L’inganno Droga nella Società delle dipendenze”, nei dibattiti pubblici e in migliaia di interviste, quindi nei tre libri che realizzammo insieme ci soffermammo maggiormente su altro.
In quel periodo conobbi comunque molti ragazzi di Sanbe, con alcuni di loro mi sento ancora oggi, e di certo respirai un’atmosfera di grande libertà e rispetto. Stando ai loro racconti, l’approccio che aveva la comunità del Gallo era del tutto differente. Andrea cercava di mantenere intatte le individualità, di farle uscire fuori in maniera libera e costruttiva, non di mutarle in qualcosa di precostituito. Senza considerare poi che, nell’esatto momento in cui l’ospite riteneva non facesse più per lui, era libero di andarsene. Una porta sempre aperta, quindi, sia in entrata che in uscita.
Una realtà ben diversa da San Patrignano, almeno stando a quello che ci ha mostrato la docuserie targata Netflix, con gente incatenata, porcilaie, umiliazioni, suicidi, presunti stupri e addirittura un omicidio. E infatti sulla memoria di Muccioli, una volta osannato padre salvatore delle innocenti vittime dell’ago, si è abbattuto un terremoto di pareri negativi, insulti e ira, una ribollita d’odio che i suoi pochi sponsor, a partire dal figlio Andrea e dal vecchio amico Red Ronnie, hanno cercato di combattere senza successo, anche perché, questo va detto, alcune situazioni sembrano davvero indifendibili.
Ma togliamoci per un attimo la maglietta dei tifosi di questa o quella squadra e proviamo a ragionare tutti insieme. Se vogliamo tentare un’analisi un minimo obbiettiva su San Patrignano e il suo fondatore dobbiamo considerare che, al netto delle legittime critiche che oggi vengono fatte a Muccioli e al sistema squadrista di Sanpa, manca un aspetto fondamentale: il contesto storico, almeno agli inizi. E non stiamo parlando di una variabile di poco conto, credetemi. Sono cresciuto con un tossicodipendente in casa e vi sto parlando dei primi anni ottanta; allora le famiglie non sapevano che cosa fare, tutti vittime dello smarrimento più totale. Lo stato se ne fregava, al Sert il metadone o l’antaxone lo davano solo a chi era pulito da almeno 10 giorni, altrimenti non ne avevi diritto, e le famiglie non sapevano come raffrontarsi col problema. Si era proprio soli. C’era chi consigliava il dialogo, chi suggeriva le mazzate. Spesso le si provava entrambe ma la realtà, o perlomeno quello che mi è parso di capire in tutti questi anni, è che finché il tossicodipendente non decide veramente e in totale autonomia di smettere, non smette. Il 90% della buona riuscita di una disintossicazione è lì, l’altro 10% è una questione di fortuna, fortuna di incontrare le persone giuste e i migliori contesti possibili quando dici basta, e probabilmente anche dopo.
Negli anni ottanta si era soli e spaventati perché i ragazzi morivano come mosche. Mio padre faceva il capostazione a Sestri Ponente, quartiere operaio stretto fra la Marconi e la Fincantieri, e ogni tre giorni i suoi colleghi trovavano un morto nei bagni con un ago piantato nel braccio. Si era terrorizzati. Si era disperati.
Poi saltò fuori uno come Muccioli – grazie anche all’aiuto dei Moratti che finanziarono la struttura fino a farla diventare gigantesca – che più o meno disse: “Li prendo io, anche i più malmessi, anche quelli senza speranza, li prendo gratis, e state tranquilli che se fan storie li chiudo dentro e non li faccio uscire” .
E allora tante mamme e tanti papà, ormai esausti, hanno mandato a Sanpa i propri figli, perché comunque il suo orribile metodo “mazzate” e “sole piatti” tanti ne salvava.
A quale prezzo chiedetelo a chi ne è venuto fuori. Ma anche qui non vi aspettate risposte a senso unico. Fabio Cantelli, che a breve uscirà con il suo libro sugli anni trascorsi a fianco di Muccioli e della serie è stato una voce importante, vi racconterà la sua visione, che è diversa a quella dell’autista Walter Delogu o del medico Boschini. Anche la conduttrice Andrea Delogu, che a Sanpa ci è addirittura nata, ne ha parlato nel suo intensissimo romanzo La Collina.
Tante voci, tanti diversi Muccioli che vengono fuori. Alcuni addirittura raggelanti. Esiste un sito – www.lamappaperduta.com – dove vecchi ospiti di San Patrignano si confrontano raccontando le loro esperienze. Leggerle è come ricevere un pugno nella bocca dello stomaco dopo aver appena finito di mangiare. Si parla di botte, catene, docce gelate, abusi sessuali, follia. Atti non compiuti direttamente da Muccioli ma di cui il fondatore di Sanpa era certamente al corrente. E poi ci sono i racconti dei presunti rapporti sessuali fra Vincenzo e alcuni dei suoi ragazzi. Claudio Ghira, ex-medico di S. Patrignano, durante la sua deposizione al processo per l’omicidio di Roberto Maranzano, alla domanda se i rapporti sessuali nella struttura fossero controllati da Muccioli, risponde: “Certo, ma nessuno controlla i suoi. Eppure quante volte lo abbiamo visto a letto con i ragazzi più giovani? Per molti di noi, però, almeno fino a quando non si riesce a passare dalla fase acritica, anche quello viene visto come un modo per stare vicino ad una persona che sta male”
“Parli di rapporti omosessuali forzati?”
“So di un ragazzo milanese che sicuramente ha visto i suoi problemi aumentare proprio per le eccessive attenzioni del babbo. Il capo amava soprattutto avere rapporti orali. Diceva che anche quelli servivano per far passare energia positiva da lui ai suoi discepoli”.
Sergio Bombardi, uno dei fedelissimi di Vincenzo, il 30 maggio del 2012 pubblica una drammatica testimonianza sulla sua pagina facebook: “Un giorno mi chiamò Vincenzo e mi affidò una ragazza di Rimini dalla quale le donne – mi pare la Diella (Rita) & C. non riuscivano a cavare nulla. Questa poveretta e poi si capirà perché poveretta fu affidata a me. Io però avevo l’impegno del gruppo per il quale era prassi il pernottamento insieme e non si poteva certo mettere a dormire una ragazza con qualche decina di ex o tossici. Mi disse (Vincenzo Muccioli, ndr) di andare con lei a vivere nella mansarda che fu alloggio di Vincenzo per un certo periodo. Non ricordo l’anno ma sicuramente prima del ’90. Durante il giorno sarebbe stata con noi chimici in laboratorio.
Lei non collaborava ed io iniziai a menare. La picchiavo con un bastone ovunque capitasse. Non la colpivo forte perché avrei potuto non solo farle male ma anche spaccarle un osso o chissà … la picchiavo con questo bastone e levavo subito il colpo.
Scusate il paragone ma si deve capire: la picchiavo come si suona la batteria: si dà il colpo e si leva immediatamente il bastone.
La colpivo anche in testa anzi furono parecchi i colpi in testa. Lei dura come il ferro neppure si lamentava.
Il giorno dopo alla sveglia trasalii. La testa e la faccia erano il doppio del normale. Chiamai il dottore ma non ricordo chi venne. Ricordo che mi guardò come si guarda un pazzo e mi disse di calmarmi. Non capitò nulla. Io credevo di aver esagerato come del resto era, aspettavo Muccioli che mi chiudesse in un tino e invece nulla. Restammo chiusi in mansarda per più di una settimana. Ricordo che il versamento dal cranio passò al collo e poi piano piano si riassorbì.
Non fini qui: la ragazza non collaborava ed allora si passò alle docce gelate. Io la mettevo nuda in doccia prendevo il getto in mano e perpetravo quest’altra violenza con la consapevolezza del mostro che sono stato parecchie volte.
A forza di vederla nuda un giorno mi feci masturbare… questo andò avanti per un mese o giù di lì.
Poi la ragazza che non aveva mai avuto problemi di droga ma era piuttosto un soggetto borderline cioè non abile come si intende, ma un po’ diversamente abile, collaborò.
Vincenzo a cena mi disse di alzarmi unitamente a questa ragazza della quale non ricordo il nome ma ricordo era di Rimini e doveva essere figlia di amici dei Muccioli, io pensai “ecco adesso mi fa nero”. Invece mi coprì di elogi e tutti mi fecero l’applauso più sincero!!!”.
Verità o vili diffamazioni?
Impossibile stabilirlo oggi.
Per cercare di saperne un po’ di più e raffrontarmi con una fonte diretta, ho chiesto lumi a un amico di lunga data che è stato tre anni a Sanpa. Lo chiameremo Y per tutelarne l’anonimato. Y aveva 23 anni ed era messo parecchio male quando, sul finire degli anni ottanta, finì a San Patrignano. Laggiù pianse, prese qualche ceffone, imparò a lavorare il legno e si ripulì. Fu dura, durissima. Oggi è un papà che ogni giorno si occupa del figlio adolescente, ha un lavoro stabile, e nel tempo libero gira in moto e ama fare lunghe passeggiate nei boschi. Se gli parli di Muccioli, a Y si illuminano gli occhi e prova per lui una grande riconoscenza. L’esperienza di San Patrignano gli ha salvato la vita.
Vedete? Le persone, esattamente come la vita, non sono mai tavolozze piene ma colori sfumati, mescolati, in perenne bilico fra la luce e l’ombra.
Allora i tossicodipendenti erano tanti, un’infinità, e le comunità avvedute troppo poche. E allora toccava turarsi il naso e andare da Muccioli, con i suoi metodi violenti, gli abusi, la maniacale disciplina e tutto quanto. Perché quegli anni sono stati una strage e le barbarie di Sanpa erano sempre meglio del vedere giovani nel fiore della vita spegnersi nei cessi delle stazioni.
Ecco, questo contesto, all’avvincente docuserie di Netflix, un poco manca; parlo dell’odore della disperazione negli occhi di tanti padri e madri che hanno perso i loro figli; parlo del rumore delle campane che rintoccavano cupe durante i funerali di ragazzi di nemmeno vent’anni; parlo dello sguardo vuoto di migliaia di anime giovani in corsa verso la morte. Un oceano di dolore che forse, e sottolineo forse, compensa gli imperdonabili errori di Vincenzo Muccioli e di San Patrignano.
O forse no. Una cara amica disintossicatasi tanti anni fa nella comunità di Don Gallo, e oggi valente scrittrice, mamma e donna impegnata nel sociale, mi fa notare che “il fatto che in quel periodo ci sia stato un Muccioli che, per le dimensioni che aveva la sua comunità, rappresentasse per tante famiglie o disperati in difficoltà l’unica spiaggia in cui sperare e a cui aggrapparsi lo comprendo ed è indiscutibile. Detto questo, se in tanti ce l’hanno fatta non significa che non ce l’avrebbero fatta senza quei metodi brutali”.
Anche questa è una chiave di lettura. Un’altra potrebbe essere da ricercare nell’eccessiva espansione di San Patrignano, che in pochi anni passò da ospitare un centinaio di ragazzi a oltre duemila persone e Muccioli fu costretto a delegare ad altri quello che non riusciva più a seguire direttamente. Gente non preparata che, inebriata dal potere, commise errori dagli effetti devastanti.
Sia quel che sia, oggi Muccioli non c’è più, ma i tossicodipendenti ci sono ancora. Temo ci saranno sempre, il passaggio alle droghe pesanti è diventato una sorta di stupida “prova di coraggio”, un rituale quasi necessario per una società che ormai da tempo ha perso ogni valore alto a cui il giovane, legittimamente, ambisce per spendere se stesso. E allora anche la droga, o meglio il passaggio attraverso il suo mondo, assume un valore rituale affascinante. Tutte le scelte più estreme dei ragazzi, dal fanatismo religioso in poi, sono figlie della necessità di cercare una maggiore profondità, quasi un disperato bisogno di quell’epica che la nostra società ha sacrificato nel nome degli agi, delle frasette motivazionali da baci perugina, del dio consumo.
La droga, almeno all’inizio, quell’apatica sicurezza priva di emozioni te la toglie. I legami, in quel mondo, si fanno più intensi, tanto nel bene quanto nel male. Ami di più i tuoi amici e odi di più i tuoi nemici. Ogni metro in strada un’avventura, una lotta per sopravvivere.
Un’ epica forte, un’epica che cattura.
Poi, quando in quel mondo ci sei davvero, le cose sono un pochino diverse: soffri come un cane, ti cola il naso, ti caghi nei pantaloni e fai cose di cui ti vergognerai tutta la vita, sempre che tu abbia la fortuna di fartela, una vita.
Ovviamente non è tutto qui. Il discorso è immenso, e abbraccia tutti gli infiniti raggi di quel complesso ingranaggio alla base dell’umana condizione. Alla droga si può arrivare perché si proviene da famiglie sbagliate, perché subentrano problemi pesanti, per una sensibilità o fragilità troppo spiccate, per una predisposizione genetica, addirittura per puro caso, ammesso che esista.
Non è un argomento facile, ci sono troppe sfumature, troppe luci e troppe ombre, proprio come dentro Sanpa e il suo strano, chiacchierato fondatore: Vincenzo Muccioli.
Forse certi problemi, così come certe figure, non vanno compresi a livello intellettuale ma scavalcano l’intelletto e pretendono un’attenzione, e poi un’accettazione, più profonda, pura, totale. Non concetti da impilare e razionalizzare, quindi, ma esperienze.
E le esperienze, belle o brutte che siano, le comprendi solo per “assorbimento”.
Jim Morrison e il grande beat – ascoltando i Doors sotto la pioggia
di Federico Traversa
Tempi bui, difficili, scuri, quelli che stiamo vivendo. Tempi senza poesia, senza arte, senza musica. In più piove e, per lo meno qui in Liguria, il grigiume uggioso che ci circonda sembra non finire mai. Andiamo avanti così da settimane. E non è facile. In questo periodo sono sommerso dai problemi, credetemi. Volatili per diabetici duri come pietre. E, come detto, piove. Piove e manca poesia. Poesia e musica nell’aria.
E come si combatte quel misto di preoccupazione, malinconia, ansia e scazzo esistenziale che ti avvolge in certi momenti?
Davvero non lo so ma io, nel dubbio, ASCOLTO I DOORS.
L’ho sempre fatto e probabilmente sarà alla loro musica che mi rivolgerò finché campo. Sin da quella sera di ormai quasi quarant’anni fa quando, bimbetto di prima o forse seconda elementare, rimasi rapito da quel suono ipnotico e quella cadenza sinistra ma non triste che accompagnava l’ultima canzone del lato B di quella strana cassetta che mio padre aveva infilato nel mangianastri dell’autoradio mentre rientravamo dalla campagna, attraversando il passo del Turchino inghiottiti dalla nebbia. Gliela aveva passata mio fratello Fabrizio, sette anni più grande di me, che già abitava un mondo fatto di rock e ribellione alimentato da gente tipo Pink Floyd, Neil Young, Lou Reed, Deep Purple, Black Sabbath e, da qualche tempo, pure dal gruppo protagonista di quella cassetta matchata sony di colore bianco e rosso. The Doors, così aveva scritto a penna Fabri sulla banda adesiva. E ciao. Rimasi rapito da quel mondo, da quei suoni dilatati – a tratti morbidi, a tratti ossessivi – dalla sensazione di entrare in una dimensione coerente seppur narcotica in cui non ci si limitava all’ascolto di una successione di canzoni ma si andava a vivere un’esperienza “inusuale”.
E poi c’era la voce, quella strana voce, così diversa da quella degli altri cantanti che le mie giovani orecchie di bambino avevano ascoltato. Ovviamente allora non capivo nulla di musica, e ad essere onesti probabilmente neanche oggi che ne scrivo, ma avvertii in quel canto qualcosa che mi faceva venire in mente gli indiani d’America, un popolo che mi affascinava e per cui tifavo con cori da stadio durante ogni film western. No, nessuna coscienza politica, nessuna consapevolezza delle tante angherie che i nativi avevano dovuto subire dall’uomo bianco, semplicemente adoravo i capelli lunghi, e quelli degli indiani, cristo santo, erano fantastici.
Ma torniamo al viaggio in macchina, alla nebbia fitta, alla pioggerella che cade mentre qualcuno ci racconta che “the blue bus is calling us”. Credetemi, io lo sentii davvero quel richiamo, e lo sento ancora oggi, in particolare nei momenti di scazzo cosmico, in particolare quando piove.
Stacco temporale; ho sedici anni, faccio la seconda superiore, ho da poco scoperto le ragazze e mi trascino ogni mattina verso la scuola senza voglia, desiderando di essere da tutt’altra parte, a vivere una vita diversa, lontano dai problemi. A casa va di merda, in famiglia è arrivata l’eroina e ogni volta che squilla il telefono la paura ci mangia vivi. Fabrizio è sempre stato un tipo inquieto. Intelligente, sveglio, uno che leggeva Dostoevskij a 11 anni e si faceva un sacco di domande. Era prevedibile si incasinasse la vita. Continuo ad ascoltare quella cassetta dei Doors, in particolare quando piove, ed è bellissimo lasciare lo sguardo a briglia sciolta fuori dalla finestra mentre quel suono invade la stanza.
Allora non esiste internet e i giornali musicali raramente parlano di un gruppo il cui cantante pare sia morto in una vasca da bagno 20 anni prima. Le uniche cose che so di questi Doors, sono frammenti di storia che il mio meraviglioso fratello borderline mi racconta a spizzichi e bocconi, quando gli vengono in mente. Tipo che il cantante dalla voce così tribale e ipnotica si chiamava Jim Morrison e, cito le parole di Fabri come me le ricordo, “era un fuori di testa, viveva sui tetti, scriveva poesie e andava nel deserto a farsi di peyote, il catctus allucinogeno che prendevano gli sciamani indiani. Belin, deve essere una bella botta, peccato che qui da noi non si trovi…”.
Capite bene che per un ragazzino di sedici anni che cercava solo un modo per fuggire da una realtà incasinata, un racconto del genere fu quasi una rivelazione. Quando una sera mio fratello portò a casa un altra cassetta registrata – stavolta nera, rossa e bianca, e chi ce l’aveva i soldi per comprarle originali? – la mia epifania proseguì. Solita bianca banda adesiva, stavolta con scritto non soltanto The Doors ma L.A. Woman – The Doors.
Donna di Los Angeles, un concetto così distante da Sestri Ponente, la periferia di Genova in cui stavo crescendo, una realtà operaia fatta di cantieri navali, Italsider, tossici con gli aghi conficcati nel braccio che si accasciavano nei bagni della stazione e un mare che non si riusciva più a vedere, se non salendo in alto, fino alla Madonna di quel monte Gazzo che da lassù ci stava proteggendo poco e male.
Amici, mi credete se vi dico, che stava tuonando quando partì l’ultima canzone del disco?
Non riuscivo a capire se la pioggia che sentivo provenisse da fuori o da dentro le cuffie, per accompagnarmi attraverso la magia liquida di Riders on The Storm.
Quel disco mi ammaliò ancora più del primo, già mi immaginavo con lo zaino in spalla e le cuffie nelle orecchie, in giro per il mondo alla ricerca del grande beat.
Lo ascoltavo tutte le mattine, sul treno di noia che mi portava a scuola.
Considerate adesso che, fino ad allora, io Jim Morrison non l’avevo mai visto, nemmeno in foto.
Poi arrivò il film di Oliver Stone e cambiò tutto.
Fu Doorsmania. Fu Morrisonmania.
Poster, libri vecchi di anni che trovavano nuovo smercio e venivano ristampati, la copertina del The Best of the Doors che campeggiava ovunque, col ritratto a torso nudo del giovane leone Jim, con i capelli lunghi e arruffati, la collanina di perle e quello sguardo pericoloso.
Scazzo esistenziale a parte, a scuola andavo bene, così mia madre mi diede i soldi e quella raccolta – più tardi avrei capito che più che un best era una semplice selezione di singoli perché se nel meglio di un gruppo come i Doors tralasci pezzi come Soul Kitchen, Peace Frog, The Soft Parade, Roadhouse Blues, The Spy, sei un criminale – fu il primo disco originale comprato dal sottoscritto.
Poi, un sabato pomeriggio, andai a vedere il film.
… … … … …
Fermo restando che era una pellicola non del tutto veritiera, esagerata, non corretta nei confronti di Morrison e tutto quanto, avete idea cosa potesse provocare un film del genere in un ragazzino inquieto, poco avvezzo alle regole, con tanti casini in casa e una passione smodata per la poesia e il mondo degli indiani?
Fu una detonazione. Uscii da quel cinema – mi pare fosse l’Universale, che se la memoria non mi inganna stava in via Cesarea, più o meno dove ora c’è la Feltrinelli – che ero completamente stonato. Stonato di parole, suoni, suggestioni, idee, possibilità…
Combinazione, anche in quello strano pomeriggio del 1991, pioveva a dirotto ma me ne fregai bellamente e mi feci la strada fino alla fermata dell’autobus in P.zza Caricamento – amici non genovesi, credetemi se vi dico che da via Cesarea è un bel pezzo – sotto la pioggia, con L.A Woman in cuffia, i capelli fradici e il bomber blu d’ordinanza così zuppo che l’acqua iniziò a scendermi sul collo, visto che quel reperto bellico degli anni novanta di colletto non ne aveva proprio.
Qualche giorno più tardi scrissi la mia prima poesia, Era Lei, dedicata a una ragazza svizzera che avevo conosciuto d’estate all’isola d’Elba. Versi sciatti e banali ma almeno avevo iniziato. Un’altra ragazza dolcissima, dai capelli scuri tagliati tipo la Valentina di Crepax e gli occhi azzurri, mi regalò Nessuno Uscirà Vivo di Qui, la biografia di Jim.
Leggerla fu la fine di quello che ero e l’inizio di ciò che sarei diventato. Grazie al bellissimo, seppur discusso, libro della coppia Hopkins/Sugerman conobbi tutti quegli incredibili scrittori che avevano influenzato Jim: Baudelaire, Rimbaud e tutti i simbolisti francesi; Jack Kerouac, la beat generation; Carlos Castaneda, lo sciamanesimo; Aldous Huxley e le esperienze psichedeliche; William Blake; la meditazione trascendentale. E poi le onde dell’Atlantico, i motel da pochi spiccioli di L.A., la Parigi degli artisti, il deserto, i navajo, la stregoneria… da uscirne pazzi.
E infatti impazzii del tutto e, forse, non sono ancora rinsavito.
Oggi ho 45 anni, al solito piove a dirotto in questa fottuta città e la mia vita è cambiata almeno in 100 modi diversi da allora. Ho una moglie bellissima, due figli meravigliosi e qualche casino di troppo, ultimamente. Ho Imparato a meditare e a scendere a patti con le regole ma una certa inquietudine esistenziale è rimasta, credo che da quella non si guarisca. Dove sono io c’è sempre musica nell’aria, tanta musica nell’aria. Di mestiere faccio lo scrittore e ho un programma alla radio, si chiama Rock is Dead, come quella pazza jam che una sera del ‘69 i Doors registrarono ai Sunset Sound.
Perché faccia questo mestiere, perché continui a battere le dita sulla tastiera alla ricerca del grande beat, beh, ora lo sapete.
E quando piove, quando avete lo scazzo cosmico, davvero amici, datemi retta: ascoltate i Doors.
Il TAO di Willie Nelson – Ovvero come invecchiare con un certo stile
di Federico Traversa
Se per uno strano gioco del destino fossi costretto a scegliere di essere qualcun altro e vivere dall’inizio alla fine la vita di un essere umano diverso da me probabilmente sceglierei di essere Willie Nelson.
E per svariati motivi. Intanto perché, come testimoniano i suoi amici, nessuno ride più forte e di gusto di lui. Mentre sto scrivendo queste pagine sta per compiere 87 anni ed è un marito, padre, nonno e bisnonno felice che trascorre 200 giorni all’anno in giro a suonare con la sua band e gli altri diviso fra il suo ranch nel Texax a contatto con la natura e la sua fantastica casa alle Hawaii dove, in compagnia della quarta moglie Annie (tranquilli dovrebbe essere l’ultima, ormai stanno insieme da quasi trent’anni), ama rilassarsi, coltivare cannabis di altissima qualità e comporre canzoni.
D’altronde puoi anche permetterlo se hai venduto oltre 100 milioni di dischi, sei il fuorilegge più amato d’America e a quasi 90 anni godi di perfetta salute. “The Last man Standing” come titola uno dei suoi ultimi album.
Senza dimenticare la sua lunga attività filantropica e l’impegno a favore di diverse cause umanitarie: per la pace, a sostegno delle fattorie a conduzione familiare, per il salvataggio degli animali, la legalizzazione della marijuana, i diritti LGBTQ o le cause ambientali
E poi vorrei essere Willie anche per un’altra ragione, probabilmente più stupida: è stato l’unico uomo di cui al momento si abbia notizia a essersi fatto una canna sul tetto della Casa Bianca insieme al figlio del Presidente degli Stati Uniti! Questo sì che è uno schiaffo al potere. E se non ci credete chiedete al figlio di Jimmy Carter cosa capitò quella sera del 1977.
Scherzi a parte, vorrei essere Willie perché pare sia una persona bellissima, disponibile, alla mano, che si comporta allo stesso modo sia che di fronte si trovi un titolato miliardario che l’ultimo punk rocker ubriaco del più sfigato club di provincia.
Uno a cui viene bene tutto, e che qualsiasi cosa faccia riesce a restare credibile; d’altronde uno dei suoi motti preferiti è: “Se te ne frega troppo non ce la farai”. Che poi è il modo cowboy per rimarcare cosa diceva il Buddha a proposito di uno dei più grandi veleni dell’umanità: l’attaccamento.
Eppure, oltre alla buona educazione ricevuta e a una linfa strutturale di primissimo livello, alla base di questa longevità disarmante, dei successi e della sincera gioia di vivere di Willie c’è un segreto. Nonostante sia texano, non si professi di una religione specifica e il suo genere musicale preferito sia il country (anche se non disdegna fruttuose puntata nel reggae) da decenni studia con impegno le filosofie orientali e, in particolare, applica i suggerimenti del Tao Te Ching. Si tratta della raccolta di versi in prosa del mistico cinese Lao Zi, anche se in molti mettono in dubbio l’esistenza del suo autore. Pare che il libro sia stato composto tra il IV e il III secolo a.C. ma anche lì vai a sapere… La leggenda narra che, stanco delle guerre fra i vari sovrani cinesi in cerca di potere, Lao Zi decise di allontanarsi dalla corte per vivere il resto dei suoi giorni in pace, lontano da tanta avidità e cattiveria. Partì così in sella al suo bufalo ma, arrivato al confine dello stato, venne fermato dal guardiano del valico. L’uomo riconobbe immediatamente il mistico e gli disse che non poteva andarsene prima di aver lasciato un segno tangibile del suo sapere. Lao Zi allora compose il Tao Te Ching. Finito di scrivere questo estratto di saggezza di 5mila battute lo consegnò al guardiano e se ne andò. Da allora di lui non si seppe più niente.
Una storia davvero suggestiva ma ancor di più lo è la lettura dell’opera, un concentrato di saggezza, filosofia e insegnamenti per vivere una vita piena e in armonia con le leggi di natura. E il nostro Willie da Abbott, Texax, invece di sgranocchiare pannocchie e leggere storie di mandriani ha fatto suoi gli insegnamenti del Tao molti anni fa e da allora li segue, adattandoli alla sua vita di rockstar e family man. Qualche anno fa ci ha fatto anche un libro, The Tao of Willie, che è stato un best seller in America.
Nel libro Willie spiega, in maniera molto ironica e chiara, cosa gli ha insegnato il Tao, in cosa crede e su quali principi basa la propria condotta; fornisce inoltre alcuni suggerimenti che gli sono stati utili per affrontare questa galoppata selvaggia che è la vita. Insomma, parafrasando Lao Zi, ci offre la “sua via”. E vi assicuro che raramente mi è capitato di leggere un testo così pregno di ironia, saggezza e buon senso.
Riassumendo, Mr Nelson, nel suo modo colorito di vecchio ragazzaccio texano con un quarto di sangue cherokee, ritiene che:
1 – Le cose che credi ti rendono la persona che sei. Esiste il potere del pensiero positivo
Una verità innegabile, e la fisica quantistica ce la spiega molto bene: l’osservatore influenza l’esperienza e l’esperienza influenza l’osservatore. Tu influenzi quello che vedi e quello che vedi ti influenza a sua volta. Andando più in profondità, anche quello che pensi ti influenza e cambia il tuo assetto mentale, proprio a livello chimico. Mi aiuto con un po’ di neurofisiologia studiata di corsa e con grande fatica. Ogni pensiero che facciamo, attraverso l’attività dell’ipotalamo, genera peptidi, che sono delle sostanze chimiche che si legano ai ricettori delle nostre cellule e le modificano. I peptidi vengono convogliati verso la ghiandola pituitaria, da qui nel circolo ematico e quindi in tutte le cellule presenti nell’organismo. Agganciandosi alle cellule i peptidi creano fenomeni fisiologici infinitesimali che possono tradursi in grandi cambiamenti nel comportamento, nell’attività e nell’umore. Queste sostanze chimiche si legano infatti ai ricettori e assumono il “controllo” delle attività della cellula, tra le quali quella di ordinare la composizione delle eventuali nuove cellule. La sconvolgente scoperta è quindi che molte nuove cellule sono generate in base a ciò che sentiamo e pensiamo! Ma c’è di più. Se la cellula riceve peptidi prodotti da pensieri negativi, quella nuova avrà più ricettori predisposti a ricevere peptidi “negativi” e meno ricettori disposti a ricevere peptidi “positivi”. Detto in maniera più semplice: le nostre cellule diventano dipendenti dagli stati d’animo che più produciamo. Per questo più ci facciamo coinvolgere da uno stato d’animo più il nostro corpo lo richiederà. Quindi quello che da secoli teorizzano le filosofie orientali e pure il buon vecchio Willie Nelson oggi è comprovato anche dalla scienza così detta tradizionale. Per questo sarebbe importante nutrirsi, sia materialmente che spiritualmente, di equilibrio e positività.
2 – C’è una saggezza presente all’interno di noi che ci guida.
Al di là della banderuola del pensiero, oltre l’animalesca serranda dell’istinto, esiste un luogo pacifico a cui possiamo attingere per trovare risposte equilibrate. Sting ce lo racconta molto bene nella celebre Let your soul be your pilot, quando dice: “Quando le preoccupazioni aumentano, quando la mappa che stavi seguendo ti porta a dubitare, quando non ci sono più informazioni e la bussola indica solo luoghi che non conosci, lascia che la tua anima ti indichi la strada. Ti guiderà bene”. Dentro ciascuno di noi esiste questo luogo calmo, imperturbabile e tranquillo. Ma va riscoperto, ravvivato e compreso ogni giorno. E il metodo per farlo, come suggeriscono i grandi saggi – e anche Willie nel successivo punto – è la meditazione.
3 – Il respiro consapevole è fondamentale, la nostra forma di meditazione.
Willie utilizza la respirazione per meditare, altri la ripetizione di un mantra, altri ancora la visualizzazione. Non è importante, sono tutte strade che conducono allo stesso posto. Grazie al respiro possiamo immettere energia divina dentro i nostri polmoni e attraverso il sangue verso il nostro cuore e la nostra mente. La respirazione può calmarci e metterci in contatto con il nostro spirito. Se tu ti concentri e ascolti il tuo respiro sentirai il suono di Dio. Quando inspiri porti aria nuova, ossigeno dentro di te, mentre quando espiri espelli ossido di carbonio per le piante e gli alberi che producono ossigeno per te. Secondo Willie, in ultima analisi, la logica del circolo della vita si può riassumere nel piantare un albero e respirare profondamente.
4 – Come ben sottolinea il Tao, Dio è ovunque e in ogni cosa, quindi puoi parlare con lui anche guardando dentro di te.
… … …
5 – Esiste la reincarnazione e la legge del karma.
Willie ci crede fermamente e, per quel che importa, anche a me sembra la spiegazione più plausibile. Secondo le filosofie orientali, le persone si reincarnano per effetto del karma. Ma cos’è questo misterioso karma? Certamente pare essere molto di più di una suggestione mistica; infatti possiamo riscontrare un applicazione scientifica del karma nelle nostre vite. Ogni azione è l’ultima di una serie di cause ed effetti che si susseguono nel tempo. Pensiamo, ad esempio, a una cosa che ci fa molta paura e destabilizza tutti noi occidentali: il terrorismo di matrice islamica. Ebbene, se pensiamo al terrorista e ai suoi atti scriteriati e analizziamo il tutto partendo da lontano, non potremo che renderci conto che l’azione scriteriata del deficiente che si fa saltare in aria è solo l’ultima conseguenza di una serie di azioni sbagliate, e che coinvolgono anche la nostra società, che partono dalle crociate oltre 500 anni fa e, passando per la colonizzazione di Africa e Medio Oriente, arrivano ai giorni nostri… e questo vale per tutti gli aspetti della nostra storia. La vita e i suoi vari cicli non si fermano e ripartono punto a capo, ma sono retti da una serie di azioni e dalle relative conseguenze. È il principio di azione-reazione, causa ed effetto. Nel Vangelo il concetto di karma è riassunto nel detto: “come semini, così raccogli”.
Si tratta di una catena inarrestabile e imperscrutabile. Troppi sono i fattori in gioco e le interazioni per comprenderla. Qualsiasi cosa tu faccia a livello relativo porta un effetto. Mangi cibo avariato e hai mal di pancia. Questo, in estrema sintesi e semplicità, sta alla base del concetto di karma. Ma attenzione, non è una punizione ma una conseguenza. La natura non punisce, sei tu che lo fai con le conseguenze delle azioni negative che hai scelto di compiere. Per questo bisogna pensare attentamente a quello che si fa, cercando di non andare mai a nuocere agli altri e contro le leggi di natura. Solo così l’equilibrio viene rispettato e si raccoglie un buon karma. Anche il karma, comunque, è collegato allo stress. Lo stress produce pensieri negativi, che producono azioni negative, che a loro volta producono karma negativo. L’eliminazione di stress, al contrario, produce pensieri positivi e quindi azioni positive e di conseguenza buon karma. È molto semplice.
6- Troppo spesso ignoriamo l’universale legge dell’amore e questo mette a rischio la nostra stessa vita e quella del pianeta che condividiamo.
Per il vecchio countryman è quindi necessario accordarsi alle leggi dell’universo, abbracciare e rispettare il mondo e tutti gli esseri viventi per crescere insieme. Non deturpare l’ambiente, non sacrificare il mansueto ciclo della natura in nome del profitto, essere attenti alle necessità del pianeta e di tutti gli esseri viventi. Il che porta al punto successivo, fra quelli nodali espressi da Nelson.
7 – Fare agli altri quello che vorremmo fosse fatto a noi stessi.
Questa buona regola è addirittura il comandamento più importante per i cristiani ma è presente in ogni religione. È una regola di comportamento che dovrebbe essere alla base della nostra vita.
8- Tutta la vita sulla terra è connessa l’una all’altra e c’è valore e bellezza in ogni cosa.
Come insegna il tao non c’è separazione, l’altro e parte di te e viceversa. Accettiamolo e saremo liberi e decisamente più propensi a perseguire il bene comune e a volare bassi con i voli pindarici del nostro stupido ego.
9 – È importante essere se stessi in barba alla così detta normalità. Non esistono persone normali, ci siamo solo io e te.
Accettarsi, perdonarsi, amarsi e andare avanti. Non c’è niente che non va in te, non c’è niente che non va in me. E la normalità? Ti starai chiedendo. E chi l’ha mai vista?
Infine la regola più importante, che li riassume un po’ tutte. Secondo Willie seguire la via del Tao significa vivere in armonia con se stessi, il mondo e tutte le creature che lo abitano nel pieno momento presente.
D’altronde questo vecchio cowboy con il sangue indiano che guarda all’oriente lo ripete ad ogni intervista: “Io davvero, più o meno, vivo un giorno alla volta”.
1. Il Mio Amico Arnold, Una Serie Maledetta…
di Federico Traversa
C’è una vecchia canzone di Fabri Fibra dedicata a un personaggio che i suoi giovani fan quasi certamente nemmeno sanno chi sia: Gary Coleman. Il rapper la scrisse probabilmente ispirato dai lavori di Zibe, un writer svizzero che, agli inizi degli anni zero, cominciò a ritrarre la faccia paffuta dell’attore afroamericano sui muri di tante città.
Per quelli che, invece, erano adolescenti nei primi anni ottanta, la storia è completamente diversa e quel nome e quel musetto suscitano ricordi dolci e divertenti. Nelle neonate tv private iniziavano a comparire le prime sit-com americane e quella interpretata dal piccolo Gary Coleman piaceva un po’ a tutti: grandi e piccini.
Si intitolava “Il Mio Amico Arnold” (“Different Strokes” il titolo originale americano) e trattava la vita di Arnold e Willis Jackson, due ragazzini afroamericani di Harlem rimasti orfani e adottati dal signor Philip Drummond, un benestante bianco che li nutriva di affetto e amore.
A interpretare Arnold era l’attore Gary Coleman, una vera forza della natura, con i suoi occhioni grandi, le guanciotte rotonde, le labbra perennemente imbronciate e una simpatia contagiosa.
Willis era invece interpretato da Todd Bridges, perfetto nella parte del fratello maggiore serio e responsabile.
La parte del ricco e amorevole padre adottivo bianco venne invece affidata a Conrad Bain, attore canadese naturalizzato americano con una lunghissima esperienza teatrale e televisiva alle spalle.
A completare il cast fisso della prima stagione c’erano la figlia naturale di Drummond, Kymberly (interpretata dalla bionda quattordicenne Dana Plato) e Edna Garrett, la governante della casa, nelle fattezze della bravissima attrice e cantante statunitense Charlotte Rae.
La serie venne proposta dall’emittente NBC, in un disperato tentativo di recuperare consensi nella fascia preserale, ormai da anni in mano alla ABC e al suo cavallo di punta: Happy Days.
I due ideatori della serie, Jeff Harris e Bernie Kukof, percepirono prima degli altri come l’America fosse pronta a una sit-com interrazziale che per la prima volta incentrasse le sue vicissitudini su una famiglia mista. I due per mesi pensarono e ripensarono a un plot efficace e a un possibile protagonista principale per il telefilm, fin quando Kukof non vide in alcune pubblicità il broncio tenero di Gary Coleman.
La serie aveva trovato il suo protagonista principale.
Gary Coleman
Quando iniziano le riprese di “Il Mio Amico Arnold”, Coleman è un bambino di dieci anni gioioso, ridanciano e particolarmente basso. Meglio così, pensano alla NBC sembrerà ancora più piccolo.
In realtà Gary è un po’ troppo piccolo per la sua età e non perché sia di poco appetito o in ritardo con la crescita. C’è di più, c’è una malattia grave, gravissima, che lo affligge dalla nascita.
Il bambino, figlio di una senzatetto di Chicago, viene adottato poche settimane dopo la nascita da una giovane coppia di colore di Chicago: Edmonia Sue, professione infermiera, e W.G. Coleman, ascensorista.
Poco prima del raggiungimento dei due anni la malattia congenita manifesta i primi disturbi e gli viene diagnosticata come fosse una sentenza: atrofia renale.
Per vivere, il piccolo Gary, dovrà sottoporsi a dialisi per tutta la vita e sperare in un trapianto di reni non appena avrà raggiunto un’età sufficiente a limitare il pericolo di rigetto. Atrofia renale vuol dire pure che lui non crescerà come tutti gli altri bambini ma rimarrà piccolo, molto piccolo. Non più di un metro e quaranta al massimo. Ma di questo, per il momento, la NBC decide di non farne parola con nessuno. E tanto meno i genitori.
Il bambino è una vera forza della natura, una miniera d’oro. L’emittente per interpretare Arnold gli offre sedicimila dollari a puntata! Siamo nel 1978 e quelli sono soldi. Tanti soldi.
W.G. si licenzia subito dal lavoro per seguire direttamente la carriera del figlio e amministrarne il nascente patrimonio. Dopo anni a spaccarsi la schiena su un montacarichi finalmente potrà vivere da signore, come uno importante. E poi il denaro servirà a garantire le migliori cure per Gary, cosa può esserci di sbagliato in questo?
Nonostante in molti all’interno della rete siano scettici sul progetto Different Strokes, l’intuizione del telefilm si rivela vincente e il successo enorme: 25% di share nel preserale e il pubblico incollato davanti alla tv su il canale NBC come non si vedeva da anni. E questo contro il ditone del mitico Fonzie di Happy Days!
Gary Coleman diventa una star indiscussa, l’America lo adotta come il nipotino spassoso della porta accanto e l’attenzione mediatica su di lui diventa febbrile. Interviste, ospitate televisive, articoli sui giornali, film a low budget per il nascente mercato home video, e il lavoro in studio sei giorni su sette.
Il cachet velocemente sale ma l’entusiasmo e la felicità, altrettanto velocemente, scemano.
Gary è pur sempre un bambino di dieci anni che avrebbe voglia di giocare, ridere e trascorrere il tempo libero con i coetanei. Ma questo non gli è concesso: quando sei una star che incolla al televisore milioni di americani il giro di soldi attorno al tuo nome tocca picchi vertiginosi. E chi si ferma è perduto, non è questa la regola del capitalismo selvaggio su cui beatamente si specchia l’America reganiana? Crescita, crescita, crescita. Per aumentare l’introito, per fare più soldi, per fiaccare e uccidere la concorrenza finché ne hai la possibilità. Non importa se sei solo un bambino.
Ma Gary non è un bambino normale, ricordate? È malato, molto malato. Si stanca più velocemente degli altri, ha le difese immunitarie più basse del normale e si ammala di niente.
Alla terza stagione appare già spossato, si becca una polmonite dietro l’altra, vomita in continuazione e i medici dicono che il trapianto ora è necessario.
I genitori chiedono di limitare le apparizioni del giovane attore ma l’emittente ribatte che Gary non può fermarsi in questo momento, sarebbe una follia. Per convincere W.G. ed Edmonia il compenso dell’attore passa a 350 mila dollari a episodio!
Nonostante la logica consiglierebbe di dare un taglio alle mille attività in cui è coinvolto e concedergli un lungo periodo di riposo per rilassarsi e ricevere le migliori cure mediche, i genitori accettano l’offerta.
Ancora una volta i soldi sembrano valere più della logica.
Si va avanti, la serie va avanti, anche se Gary sta male ed è profondamente infelice.
All’inizio della sesta stagione l’attore ha ormai quindici anni e la sua prospettiva è cambiata. Sta crescendo, ha superato la pubertà e, come tutti a quell’età, non si sente più un bambino ma un adolescente lanciato verso l’età adulta. Vorrebbe cambiare il suo personaggio, farlo raffrontare con tematiche più in linea con la sua età, senza terminare ogni episodio in braccio a Conrad Bain con il viso imbronciato e il solito tormentone che lo ha reo famoso: “Che diavolo stai dicendo, Willis?” (“ What’chu talkin’ ‘bout, Willis?” nell’originale americano).
Ragioni legittime a quindici anni compiuti. Peccato che in televisione non importa essere veri, conta decisamente di più essere verosimili. E Gary verosimilmente dimostra a malapena dieci anni, e così viene proposto al pubblico.
La frustrazione aumenta. E pure i problemi di salute.
Durante la settima stagione l’attore si sente male sul set e viene ricoverato d’urgenza e sottoposto a un lungo ciclo di dialisi.
I dottori gli prescrivono un lungo periodo di riposo. Gary vorrebbe lasciare la serie e tornare a casa ma il padre si oppone strenuamente all’idea. Gli dice che deve sacrificarsi per la famiglia, stringere i denti e non voltare le spalle alla fortuna. Fa leva sul senso di responsabilità del figlio ammalato e alla fine ottiene che Gary torni a recitare la parte di Arnold.
Nel frattempo viene trovato un rene compatibile e l’attore è sottoposto a trapianto. Sembra la fine di un brutto sogno, invece è soltanto l’inizio soft di incubo. Il trapianto non funziona, Gary rigetta il rene e torna a star male come e più di prima.
E intanto le riprese vanno avanti.
Il pubblico, si sa, è per sua natura capriccioso e alla lunga si stufa di tutto. Soprattutto delle cose che rimangono sempre troppo uguali a se stesse. Come “Different Strokes”. Già da un paio di stagioni la frizzante verve delle serie poco alla volta si è annacquata e il telefilm è diventato ripetitivo.
Gli ascolti calano, calano parecchio, tanto che, nella primavera del 1985, la NBC cancella il telefilm dai propri palinsesti al termine della settima stagione.
Tuttavia, la serie fa ancora gola, così come il nome di Gary Coleman, e l’emittente rivale ABC decide di produrre un’ottava stagione di “Different Strokes” da mandare in onda il venerdì sera.
Coleman non vorrebbe prendervi parte, l’insuccesso del trapianto e la conseguente crisi di rigetto ne hanno fiaccato lo spirito e il corpo. E poi non ne può più di interpretare la parte di Arnold Jackson, il bambino nero che non cresce e rimane sempre uguale a se stesso.
Litiga con i co-protagonisti della serie, urla che vuole tornare a casa, sbraita al mondo che non ne può più, soffre e piange ma, alla fine, è ancora costretto a piegarsi: interpreterà ancora Arnold nell’ottava stagione prodotta e trasmessa dalla ABC.
La serie però è ormai spremuta e, nonostante il cambio di palinsesto, gli ascolti continuano a scendere.
Così, dopo 19 episodi, il 30 agosto del 1986, cala il sipario su uno dei telefilm maggiormente seguiti degli anni ottanta.
I signori Coleman, gli attori, il regista e i produttori ne sono distrutti, l’unico a gioire di quello stop come fosse la fine di un brutto sogno è Gary, che accoglie la notizia a braccia alzate, correndo felice per gli studio come se avesse segnato un gol.
Finito il personaggio di Arnold, auspica per lui un po’ di tranquillità, una vita serena, nuovi progetti artistici su cui lavorare, l’inizio di una nuova vita e di una nuova carriera. Purtroppo, il giovane uomo che non cresce, ancora non sa che quando la macchina del music biz ti trita, è molto difficile rimettere assieme i tuoi pezzi.
In pochi mesi la difficile storia personale di Gary Coleman assumerà le fattezze di una tragedia greca.
La prima batosta è di natura professionale. Gary era convinto che, non appena smesso il personaggio di Arnold, le offerte sarebbero fioccate come neve e che lui avrebbe trascorso le giornate a scegliere fra vari copioni con allegati assegni a tanti zeri.
Ma nulla di questo accade. A Coleman è successa la cosa più terribile che possa capitare ad un attore: rimanere intrappolato nella sua parte più famosa.
Per i produttori, per i registi e per i media stessi, la sua figura è indissolubilmente legata ad Arnold e, per quanto barbaro possa sembrare, la carriera professionale di Gary muore insieme al suo personaggio nel telefilm.
Nei quattro anni successivi alla fine della serie, al di là di qualche cameo o ospitata in qualche altro telefilm, Coleman di fatto non lavora. Il conto in banca si assottiglia e in breve tempo il giovane miliardario si ritrova a secco. Sembra impossibile che abbia speso così tanto, eppure i conti non mentono. O forse sì, perché quando l’attore ormai maggiorenne mette il naso nel suo patrimonio in caduta libera, scopre che a fregarlo sono state le ultime persone da cui se lo sarebbe aspettato: i suoi genitori. Il padre, in particolare, si eroga un doppio stipendio faraonico ogni mese, sia come presidente della società che fa capo all’attore che come manager dell’attore stesso. E pure la madre non disdegna un ricco compenso più annessa percentuale. Alla fine, fra famigliari, manager e collaboratori, risulta che è proprio Gary quello a pagare più tasse allo stato ma a guadagnare meno di tutti.
Il giovane si sente tradito. Schiuma di rabbia e delusione. Licenzia il padre e, nel 1989, lo porta in tribunale, chiedendo circa quattro milioni di dollari di risarcimento. Ne otterrà circa un terzo al termine della disputa legale, cinque anni dopo.
Nel frattempo deve tirare la cinghia, sperare in qualche nuovo ingaggio e sopravvivere. Cosa non facile se sei costretto settimanalmente alla dialisi in un paese dove fino a pochi anni fa non esisteva alcuna assistenza sanitaria. Coleman è costretto ad accettare quasi qualsiasi proposta. Lavora come d.j. in una piccola radio di Denver, partecipa ad altri cameo, ma di proposte concrete non ne arrivano e le spese mediche continuano ad aumentare.
Il giovane paffutello che solo pochi anni prima commuoveva e divertiva l’America sta morendo di fame e ha i reni malati ma a nessuno sembra fregare qualcosa.
In un’intervista concessa a una televisione americana nel 1993 confessa di aver tentano il suicidio per ben due volte. La notizia incuriosisce tutti ma non impietosisce nessuno, visto che a Coleman nuove offerte di lavoro non ne arrivano.
Per qualche anno si perdono le sue tracce, la televisione cambia e gli eroi delle sit com anni ottanta finiscono nel dimenticatoio.
Poi, un servizio andato in onda sui tg americani nel 1998, torna a parlare di Gary, mostrando l’ex interprete di Arnold in divisa da guardia giurata presso un grande magazzino. È questo il suo lavoro ora, ed è pure accusato di aver malmenato una donna che avendolo riconosciuto l’ha schernito per la brutta fine che ha fatto.
Seguono anni duri, durissimi. Gary si trasferisce a Santaquin, una piccola cittadina a sud di Sout Lake City, nello Utah. Qui, lentamente, prova a rimettere in sesto la propria vita e la propria carriera. Tante ospitate in programmi nostalgici, sullo stile del nostro Matricole e Meteore, partecipazioni a video musicali (N’Sync, Kid, Rock, Moby e John Cena) e ruoli secondari in b-movie e telefilm.
Nel 2006, sul set della commedia Church Ball – dove interpreta la parte di un giocatore di una scapestrata squadra di basket – incontra la ventiduenne Shannon Price. I due si sposano pochi mesi dopo essersi conosciuti.
Che Coleman abbia finalmente trovato un po’ di serenità? Macché. Nemmeno un anno dopo la coppia si separa, non prima di essere apparsi alla trasmissione Divorce Court, un orribile format americano a cui partecipano coppie che hanno deciso di divorziare per cercare di salvare in diretta televisiva il matrimonio.
Il divorzio ufficiale Coleman e la Price viene sancito nell’agosto del 2008, tuttavia Shannon continua a vivere a casa di Gary nonostante non ne sia più la moglie.
L’attore va avanti con la propria vita ma è sempre più difficile. Si sente frustato, derubato di qualcosa e pieno di rabbia. Si sono presi la sua adolescenza e in cambio gli hanno dato una tragica età adulta, infelice, umiliante e piena di frustrazioni. E allora spesso si lascia andare a vere e proprie esplosioni di rabbia che, immancabilmente, finiscono sui giornali. Come quando, dopo una lite in un parcheggio con un fotografo che lo immortala senza permesso, sale sulla sua auto e lo investe. Nonostante il fotografo riporti soltanto delle escoriazioni superficiali, la notizia fa il giro degli Stati Uniti
Passa qualche mese e ci risiamo: Gary è di nuovo sui giornali. Stavolta per una furiosa lite con l’ex moglie Shannon, che sfocia in un vero e proprio scontro fisico tra i due con tanto di intervento della polizia. Questa volta però l’attore è parte lesa e l’accusa di violenza domestica è a carico dell’ex moglie.
L’anno dopo la scena si ripete ma a parti ribaltate: è Gary ad essere accusato di violenza domestica su Shannon
Siamo ai titoli di coda.
Da tempo la salute dell’attore sta peggiorando. Nel 2009 si è sottoposto a un intervento chirurgico al cuore e durante la riabilitazione post operatoria si è ammalato gravemente di polmonite. L’anno successivo altri due ricoveri per alcuni improvvisi attacchi epilettici, l’ultimo dei quali sul set di Insider, un programma televisivo a cui sta partecipando.
L’agonia per lo sfortunato attore termina qualche mese più tardi – precisamente il 26 maggio del 2010 – quando viene ricoverato d’urgenza all’Utah Valley Regional Medical Center in condizioni critiche.
Secondo quanto riportato da Shannon, l’attore sarebbe caduto dalle scale a seguito forse di un nuovo attacco epilettico e avrebbe battuto violentemente la testa.
L’emorragia è irreversibile e, il giorno dopo, viene dichiarata la morte cerebrale, a seguito della quale si interrompe il mantenimento forzato in vita. E già qui si apre un caso: secondo l’avvocato dell’attore, Randy Kester, non è chiaro chi abbia dato l’autorizzazione a spegnere le macchine che tenevano artificialmente in vita Coleman. Probabilmente la moglie, anche se ora sorge il dubbio che la donna non ne avesse facoltà, visto che i due erano divorziati.
La Price, comunque, riesce a guadagnare anche su questa triste dipartita, vendendo ai tabloid le foto dell’attore in coma, sdraiato nel letto d’ospedale e completamente intubato.
Un atto triste, tristissimo, l’ultimo dispetto a Gary Coleman, un piccolo uomo malato sul cui corpo, in periodi diversi della vita, a turno hanno pasteggiato con morsi avidi le persone che dovevano averne più a cuore la salute: i genitori e la moglie.
Un attore a cui doveva molto anche la rete NBC, che sul finire degli anni settanta venne salvato da una gravissima crisi d’ascolti dalla guance paffute e dai labbroni imbronciati di un bambino di nemmeno dieci anni malato ai reni.
Un bambino a cui non è stato concesso di diventare uomo, morto a poco più di 42 anni praticamente solo, malato e al verde.
Se questa non è una storia di scandaloso abuso su un minore, non so quale lo sia.
Delle tristi vicende della povera Kimberly (Dana Plato) e di Willis (Todd Bridges) vi parlerò un’altra volta e no, non sarà un bel viaggio. D’altronde, come recita il titolo, questa è una serie maledetta.
L’incredibile storia di Falco, il Mozart del pop che visse a 1000 all’ora
di Federico Traversa
La sua Der Kommissar è stata forse la prima canzone che ho canticchiato con talmente tanta insistenza da beccarmi una nota in classe. Il problema è che non riuscivo a smettere, quel “po po po” mi frullava a random nella testa e il tipo con gli occhiali scuri che cantava quel brano era troppo curioso e affascinante agli occhi del ragazzino di seconda elementare che ero.
Lui si chiamava Falco, ed effettivamente era parecchio diverso dagli altri. Intanto non era inglese o americano, come la maggior parte dei musicisti che affollavano le classifiche. Veniva dall’Austria, patria di grandi compositori classici ma non certo di popstar. Vestiva elegante, ispirandosi smaccatamente al Bowie della trilogia berlinese, con i capelli scuri impomatati, gli immancabili occhiali da sole e le barre in tedesco quando nessuno in Europa sapeva cosa fosse il rap.
Un tipo davvero singolare, che seppe catturarmi completamente, come sapevano fare i tipi più incredibili, quelli che quando passavano in tv non potevi fare a meno di guardare, come il Michael Jackson che ballava indemoniato in Thriller, i dreadlocks di Marley che ondeggiavano sul prato di San Siro o i Righeira e le loro giacché colorate che cantavano di andare alla spiaggia mentre scoppiava la bomba atomica.
Cristo se erano strani gli anni Ottanta.
Falco mi stregò già dal nome, figo come pochi. In realtà si chiamava Johann Hans Hölzel e si era ribattezzato Falco dopo essersi trasferito nella zona ovest di Berlino a vent’anni per cercare di sfondare con la musica. Nella città tedesca rimase stregato dalle gesta del celebre saltatore con gli sci Falko Weibflog, così sostituì la K con la C e decise che quello sarebbe stato il suo nome d’arte. Da quel giorno pretese di essere chiamato così da tutti, pure da sua madre, che si ostinava a chiamarlo ancora col nomignolo di Hansi, con suo grande disappunto.
Chiariamolo subito, questo ragazzone dai capelli scuri e lo sguardo penetrante non era un tipo semplice. Parliamo di un soggetto bizzarro, estroso e molto egocentrico, una vera “diva” che poteva fermarsi a teorizzare per ore sul modello di mocassini di coccodrillo visti indosso a un collega oppure parlare di sé in terza persona, ma parliamo anche di un musicista dotato, simpatico, generoso e divertente. Il Falco che ti trovavi davanti, probabilmente, dipendeva tanto da come si svegliava quanto da cosa aveva fatto la sera prima.
Musicalmente era molto preparato, nella casa in cui crebbe c’era un pianoforte e lui cominciò a suonarlo da piccolissimo. Per un periodo frequentò anche il conservatorio, anche se ben presto preferì il basso al piano, che imparò a suonare durante il servizio militare.
Nel 1977, a vent’anni, dopo qualche lavoretto saltuario, Hansi salutò la famiglia e si trasferì come detto a Berlino. Di lavorare manco a parlarne, lui accettava una sola possibilità nella vita: essere una star, come David Bowie, uno dei suoi più grandi idoli.
Nella città tedesca le sue notti erano lunghe e le giornate assai brevi.
All’epoca girava anche un’altra teoria sul perché avesse deciso di farsi chiamare Falco, sapete? E in questa storia si parlava di notti fumose, locali fatiscenti, drogaggi vari e un amico italiano distrutto dall’eroina che al termine dell’ennesima notte di devasto si girò verso il nostro, ancora in piedi e in discreta forma, e gli disse: “Tu te la caverai sempre, tu voli alto, sei come un falco“.
Rientrato a Vienna, Hansi – pardon, Falco – militò per un paio d’anni in uno strambo gruppo d’avanguardia, gli Hallucination Company, con cui ottenne un discreto seguito locale.
Secondo l’amico e compagno di band Wickerl Adam: “Falco era sesso, droga e rock n’roll in abiti Versace”.
Con un altra band, dall’attitudine più rock e politica, gli Drandiwaberl, in cui suonava il basso e all’occorrenza cantava, Falco incassò il suo primo successo come solista; compose infatti il brano Ganz Wien (Tutta Vienna), che era solito eseguire come riempitivo da solo ai live durante le pause del gruppo. La canzone parlava, con il consueto humour tipico di Falco, di come tutti nella capitale austriaca si facessero di coca e, manco a dirlo, venne boicottata dalle radio austriache. Eppure servì a fargli ottenere un contratto per tre dischi solisti con la Gig.
Ad affiancarlo, l’etichetta gli mise un produttore che aveva già macinato alcune hit. Si chiamava Robert Ponger e passò subito a Falco una strumentale strana, che occhieggiava alla dance ma anche a un suono più martellante, diverso, quasi black per non dire funk, una base sulla quale era difficile cantare. E infatti il cantautore austriaco Reinhold Bilgeri, per cui la base originariamente era stata pensata, la scartò schifato.
Falco all’inizio era dubbioso, per lui il singolo da registrare subito doveva essere Heiden von Heute, che gli era stata ispirata da Heroes dell’amato Bowie.
Tenne comunque la canzone con sé qualche giorno poi, prendendo spunto dal commissario Kottam, una celebre serie TV poliziesca austriaca in cui aveva recitato in un episodio, buttò giù il testo.
Se era impossibile cantare su quei ritmi lui decise, anticipando i tempi, di rapparci sopra, lasciando il cantato solo nel ritornello.
Der Kommissar venne terminata in pochi giorni diventando un successo clamoroso. In Austria, Francia, Germania, Italia, Spagna e via via in tutta Europa. Complice la spinta di Afrika Bambaata, che la suona nei club neri della Grande Mela, la canzone entrò in classifica persino in America, raggiungendo il settantaduesimo posto, una cosa inaudita per un brano cantato in tedesco. Era successo soltanto una volta, nel 1975 con Autobhan dei Kraftwerk.
Trascinato dal singolo delle meraviglie, anche l’album di debutto –Einzelhaft – svettò nelle chart, vendendo oltre sette milioni copie.
A quel punto Falco era ormai una star. Ma quel successo pretese dazio, un dazio pesante. Hansi, già egocentrico e incasinato di suo, si trovò spiazzato dall’improvvisa fama e la gestì nel peggiore dei modi possibili. Droghe, alcool, psicofarmaci, relazioni di una notte, follia.
Preda di deliri di onnipotenza, paranoia ma anche di un’integrità artistica che naturalmente lo portava ad alzare sempre l’asticella, realizzò il suo secondo attesissimo disco fregandosene di cercare un singolo potente come Der Kommissar. Inoltre scelse di continuare a cantare in tedesco nonostante tutti gli suggerissero di provare con l’inglese, in modo da sfondare anche in quel mercato, e lo fece assemblando una serie di brani dai testi complessi e ben poco accondiscendenti nei confronti delle radio. Se a questo aggiungiamo un atteggiamento distaccato e supponente durante le interviste, ecco servito il cocktail per il suicidio commerciale.
E difatti Junge Roemer, secondo disco d’inediti di Falco, si rivelò un flop clamoroso, che portò addirittura all’annullamento delle date del tour promozionale. Non solo per le scarse vendite ma per le pessime condizioni di Falco, perennemente fatto, ubriaco o entrambe le cose.
Distrutto dall’insuccesso, il musicista decise di staccare la spina, trascorrendo una lunga vacanza in Thailandia con gli amici più cari, nel tentativo di ritrovare un poco di equilibrio e pace interiore, a cui seguì un periodo lontano dalle scene.
Quando, dopo qualche anno, fu pronto a tornare, il manager Horst Bork gli presentò i fratelli Bolland, due produttori olandesi che avevano ottenuto un paio di clamorose hit e collaborato con Samanta Fox e Amy Stewart. Il mondo li avrebbe ricordati per In The Army Now che qualche anno dopo gli Status Quo portarono al successo.
L’incontrò partì male, perché la prima canzone che i due sottoposero a Falco fu un delirante pezzo sul suo più celebre concittadino: il compositore Wofang Amadeus Mozart.
“Manco morto” rispose lui “è come se a voi chiedessero di realizzare una canzone sugli zoccoli e i mulini a vento perché siete olandesi” fu la piccata risposta di Falco.
Eppure l’idea che un moderno rivoluzionario del pop viennese raccontasse il geniale concittadino che rivoluzionò la musica classica non era niente male. In più il film biografico su Amadeus di Milos Forman, uscito solo un anno prima, con una regia moderna, quasi pop, aveva ottenuto un successo clamoroso, facendo incetta di premi e statuette.
E così alla fine Falco cedette e all’interno del disco con cui si stava giocando tutto – l’impareggiabile Falco 3, quello che contiene la scabrosa e bellissima Jeanny, Vienna Calling e Munich Girls, stramba rivisitazione di un pezzo dei Cars – accettò di inserire anche quello strano brano, che nel frattempo aveva mutato il suo titolo in Rock Me Amadeus, che la casa discografica scelse come primo singolo.
E ciao. Primo in classifica, ovunque, pure in America, con un remix del brano ironicamente chiamato Rock Me Amadeus – The Salieri Version, che superò Kiss di Prince. Ma ve lo ricordate il video? Con Falco vestito da Mozart e i motociclisti barbuti a creare quell’incredibile dicotomia con l’ambientazione settecentesca.
Falco 3 spopolò ovunque e Hansi finì addirittura ad aprire il festival nazionale di musica classica di Vienna davanti a oltre sessantamila persone. Impensabile per un cantante pop, ma non per Falco, che al momento era l’artista austriaco più venduto e apprezzato al mondo.
Un successo di gran lunga superiore a quello già fragoroso ottenuto ai tempi di Der Kommissar, di quelli in cui sali così tanto in alto che poi puoi solo scendere.
E infatti da lì in aventi la carriera di Falco non toccò più certe vette, nemmeno lontanamente, e anche la sua vita privata finì per incasinarsi sempre di più. Certe hit spesso segnano negativamente una carriera, proprio perché sono irripetibili.
I suoi successivi quattro dischi, registrati fra il 1986 e il 1992, vendettero bene solo nella sua Austria, dove ormai era una sorta di divinità, ma andarono male nelle altre parti del mondo e Falco ne soffrì tantissimo.
Tra un insuccesso, una pista di cocaina e una bottiglia di champagne, trovò conforto fra le braccia di Isabella Viktovic, biondissima ex miss Stiria che incontrò una sera in un bar di Graz, perdendo definitivamente la testa.
“Era il mio tipo ideale: alta, bionda e con la tubercolosi” la descrisse Falco col suo immancabile sarcasmo.
Dalla Viktovic, che sposò nel 1988, ebbe l’amata figlia Katharina Bianca, da cui prese la forza per tentare di smetterla con alcool e droga. Ma durò poco. Ben presto la storia con Isabella naufragò malamente, i due si separarono e dopo qualche anno Falco scoprì, con grande tristezza, che la piccola, che ormai aveva sette anni, non era figlia sua.
Deluso, triste, indurito dalla vita, Falco lasciò l’Europa e si trasferì a Santo Domingo, cercando al caldo dei Caraibi un po’ di quella serenità perduta. Prima di andarsene, però, aprì un libretto di risparmi a nome della piccola Kathrina, da cui la ragazza avrebbe potuto attingere compiuti i diciotto anni.
Nonostante il paradiso in cui si era trasferito, Falco non la smise con la sua vita dissoluta, che si spense a San Felice de Puerto Plata, quando a un incrocio, mentre era alla guida della sua jeep Mitsubishi Pajero si scontrò contro un autobus, morendo sul colpo.
Nel suo sangue vennero trovate tracce di cocaina, alcol e marijuana.
Nel 1982, ai tempi del successo del commissario, aveva dichiarato a un giornalista di voler morire in un incidente d’auto, come James Dean. Una macabra quanto profetica dichiarazione.
Una morte su cui non mancarono le speculazioni, qualcuno arrivò persino a parlare di un possibile suicidio. Secondo alcuni testimoni, infatti, il suo fuoristrada venne travolto proprio mentre Hansi si stava immettendo a folle velocità in carreggiata senza guardare, quasi volesse farla finita.
Sia quel che sia, il 6 febbraio del 1998, ad appena quarantun anni, finisce la vita di Falco e inizia la sua leggenda. Riportato in Austria con un volo privato della Lauda Air – Nikki Lauda stesso era grande amico di Falco e aveva dato il suo nome a un aereo – l’autore di Rock Me Amadeus ebbe un funerale degno di un principe, con la bara trasportata dal gruppo di barbuti motociclisti che tredici anni prima erano apparsi nel celebre video.
Per non parlare della sua tomba, posta nel cimitero di Vienna, poco distante dagli illustri compositori del passato. Una tomba tutto fuorché sobria, con una statua di Falco che allarga le braccia sopra la lapide come fossero ali. Probabilmente lui l’avrebbe adorata. Anzi, la adora. Perché lui è ancora fra noi. Come recita mil titolo di uno struggente brano inedito rinvenuto dopo la sua scomparsa: Lo spirito non muore.
E ora apriamo le ali e voliamo.
Quella volta in cui ho visto giocare Maradona
di Federico Traversa
Campionato 1989-90, ho 14 anni e i miei genitori hanno finalmente ceduto: dopo tre anni che imploro, e visto che sono un ottimo studente, mi regalano l’abbonamento di Gradinata Nord, il cuore pulsante della tifoseria rossoblù. Un posto mitico e mitizzato da cui si alzano quei cori magici per il Genoa, la mia squadra del cuore, che dopo anni infiniti nella cadetteria è finalmente tornata in serie A sotto la guida dell’uomo di Lipari, il capo popolo Franco Scoglio.
È il Genoa del Presidente Spinelli, del trio uruguaiano composto dal macchinoso Perdomo, dal fantasista Ruben Paz e dal guizzante Pato Aguilera, meraviglioso centravanti che la Nord adotterà come uno dei suoi figli prediletti, soprattutto quando, qualche mese dopo, finirà in manette per un crimine tutto da dimostrare.
Ricordo tutto di quel giorno, persino com’ero vestito: bomber blu d’ordinanza, jeans con le toppe, Doc Martens con la punta di ferro e sciarpa del Genoa, quella con la scritta Sestri Rossoblù che mi aveva venduto l’anima pia di Miglio del Genoa Club Sestri. E poi l’incontro col Galle e Christian in quartiere, due calci al pallone e via di corsa in stazione a prendere il treno per Brignole insieme agli altri tifosi, di tutte le età, dai bambini accompagnati dai papà ai ragazzi più grandi con lo sguardo da duri che animavano la gradinata.
Allora gli stadi non erano esattamente un posto sicuro, o perlomeno così si diceva alla televisione, e i genitori avevano paura a mandarci da soli. Personalmente, ho frequentato il Ferraris per oltre vent’anni e non sono mai stato coinvolto in alcun scontro né ho mai avuto da ridire con qualcuno. Poi non so, parlo solo per la mia esperienza ma, da quello che ho capito, tendenzialmente i guai capitano a quelle teste di cactus che se li vanno a cercare.
Comunque quella domenica i miei erano più tranquilli del solito perché il Genoa giocava contro il Napoli e le due tifoserie erano legate da uno storico gemellaggio.
Per noi, invece, l’epicentro dell’estasi era rappresentato da un altro fattore: il fattore M. Infatti avremmo visto giocare Diego. Diego Maradona. M-A-R-A-D-O-N-A.
Istinto, visione, ritmo e poesia. Vederlo giocare al calcio era un’esperienza mistica. Come sentir cantare Marley, veder boxare Ali, come i colli lunghi di Modì, il gancio cielo di Kareem, i versi di Rimbaud, come le curve strette di Ayrton, i lob di McEnroe, le visioni di Fellini, il mare d’inverno che suona la sua scura canzone…
Amavamo tutti Maradona, era un tipo istintivo, passionale, incredibilmente umano. Veniva da un contesto di estrema povertà e quindi naturalmente empatizzava con i più deboli. Per noi, figli della classe operaia della periferia di Genova, era un esempio, esattamente come le era per la sua gente dei quartieri poveri di Buenos Aires, o per quel brodo di umanità, sangue e sudore che ribolle nei quartieri spagnoli e nei vari rioni di Napoli.
Fu una gran partita, ragazzi. Il Genoa, il nostro Genoa tutto cuore e corsa targato Mister Scoglio, giocò benissimo contro la squadra del campionissimo argentino. Passammo addirittura in vantaggio con un gran gol del biondo Davide Fontolan, poi loro persero il baffuto terzino brasiliano Alemao, che venne espulso per un fallaccio mi pare proprio su Pato e poi… e poi Caricola, il nostro centrale difensivo scuola Juve, commise uno stupido fallo di mano in area. Forse pensava di giocare ancora con gli impuniti bianconeri, chissà…
Rigore per il Napoli. Sotto la nord. A tirarlo lui, el diez.
Lo osservai con attenzione, mi sembrava impossibile fosse a una ventina di metri da me. Osservai la sua chioma riccioluta, il collo imponente, le gambe massicce e un po’ storte, il modo che aveva di saltellarle sul posto, che quasi sembrava danzasse.
Possibilità che Gregori, il nostro non impeccabile portiere, parasse il tiro? Poche, per non dire pochissime. E infatti, pur intuendo la traiettoria, la palla finì all’angolino.
Uno a uno e tutti a casa.
Noi felici perché un punto contro il Napoli era tanta roba, e loro pure, perché la partita si stava mettendo male.
Per me, Galle, Chri e tutti gli altri ragazzini presenti, però, quel pomeriggio era stato grandioso per un altro motivo: avevamo visto giocare Diego dal vivo, non in video come capitato con i vari Cruyff, Eusebio o Pelè. Avevamo visto con i nostri occhi il più grande e un giorno l’avremmo raccontato ai nostri figli.
L’anno dopo Maradona non giocò a Marassi contro il Genoa, era fuori per infortunio, e da lì a poco lasciò Napoli e l’Italia, quindi quella partita fu un “one shot” indimenticabile.
Eppure Diego sarebbe rimasto nella mia vita, tornando di tanto in tanto ad accendere la mia fantasia.
Quando con Tonino Carotone incontrai Emir Kusturica, per dire, il sommo regista slavo stava iniziando le riprese del suo film sul Pibe de Oro, e finimmo a parlare di calcio, di Genoa, Osasuna, Napoli e, ovviamente, El Diez.
Stessa cosa un anno dopo con Manu Chao, che a Diego aveva dedicato una bellissima canzone e che ci raccontò quanto era stato emozionante incontrarlo.
E poi è arrivata Daria, mia moglie, napoletana 100%, con cui ho vissuto e vivo la città dei Borboni in ogni suo anfratto. Napoli, la sua magia, la storia, la fantasia folle della sua gente. Napoli, dove il 30% dei maschi nati negli anni ottanta si chiamano Diego, dove ho trovato una seconda famiglia che mi ama come un figlio, un fratello, uno di loro. Napoli, la squadra per cui tifa Alessandro, il mio primo figlio. Ovviamente insieme al Genoa.
Anzi, appena torna da scuola voglio farlo sedere sulle mie ginocchia e raccontargli, con la voce impostata delle grandi occasioni, di quella volta in cui il suo vecchio padre ha visto giocare Diego Armando Maradona. Più o meno è questo ciò che mi ero ripromesso di fare trent’anni fa mentre, pizzetta post partita in una mano e Coca Cola fresca nell’altra, rincasavo dallo stadio con Galle e Chri, e il futuro mi stava aspettando tiepido come quel sole a forma di dieci che stava tramontando.
ROBERT JOHNSON
LA MALEDIZIONE DEL BLUES
Una volta, quando ancora ero un aspirante scrittore di nemmeno vent’anni, andai a vedere la presentazione di un romanzo di cui si diceva un gran bene. L’autore era stato per anni un senzatetto alcolizzato, solo la voglia di scrivere ancora un’altra poesia e l’aiuto di un’amica che si era innamorata dei suoi scritti lo aveva salvato dal commettere suicidio. Pensate che scrisse la prima bozza del libro sul retro degli scontrini usati che raccoglieva da terra mentre mendicava. La prosa di quello scrittore sui cinquant’anni, che per almeno trenta aveva fatto a botte con la vita, era potente e suggestiva. E quando uno degli spettatori gli chiese a chi si ispirasse per scrivere, se più ad Hemingway o a Bukowski, lui solo rispose: “Al blues, io mi ispiro al blues. C’è solo un linguaggio per un cuore che sanguina e un’anima in cerca di redenzione e quel linguaggio è il blues. E il blues può essere suonato, cantato ma anche dipinto oppure scritto”.
E poi, a sorpresa, si mise a intonare una litania struggente, solo voce e nocche che battevano sul tavolo a cui era appoggiato.
Fu un momento straordinario perché quel giorno capii veramente e definitivamente perché il blues è il BLUES.
Nelle settimane successive ascoltai e mi documentai, scoprendo che i vecchi bluesman del Mississippi erano più sinistri e maledetti delle moderne rockstar che allora tanto amavo. Piantagioni di cotone, donne disinibite, alcol e maledizioni. Wow. C’era da uscirne pazzi. Poi qualcuno mi parlò di Robert Johnson e della sua storia, e per la prima volta ebbi davvero paura.
Avete presente il detto: “Attento a cosa desideri perché potresti ottenerlo?”
Una vicenda che faceva tremare il mio cuore adolescente quasi quanto il film Angel Heart che, tra l’altro, alla storia di Johnson credo debba parecchio, perlomeno in termini di immaginario e sceneggiatura.
E comunque…
Presumibilmente Robert Johnson nasce l’8 maggio 1911 a Hazlehurst, nel Mississippi, undicesimo figlio di Julia Major Doods. I dieci figli che lo avevano preceduto erano nati dal matrimonio della donna con Charles Doods, tutti ma non Robert. Lui era figlio illegittimo, nato dalla relazione fra Julia e Noah Johnson, un lavoratore della vicina piantagione.
Un’infanzia nomade e povera la sua, ai limiti della miseria, e un’adolescenza segnata dagli immancabili scontri col patrigno e da nessuna istruzione scolastica. E poi la musica, i primi rudimenti per suonare inizialmente l’armonica a bocca, e dopo la chitarra insegnategli dal fratello Charles Leroy, a far nascere una passione che lo attanaglia per non abbandonarlo mai più. Eppure, nonostante tanto si impegni, non è che Robert appaia un musicista così dotato; laggiù, nel Delta del Mississippi, ce ne sono tanti migliori di lui.
A 18 anni il nostro già si sposa ma la moglie sedicenne, Virginia Travis, muore nel dare alla luce loro figlio. Distrutto dal dolore, Johnson inizia a vagare lungo il Mississippi bevendo, fumando, andando a donne ed esorcizzando il proprio dolore in struggenti blues alla chitarra.
Nel 1931 il musicista tenta di ricostruirsi una vita normale e sposa Calletta Craft, una donna da poco conosciuta con cui si trasferisce nel villaggio di Copiah County. Ma la crescente passione per la musica e un tormento interiore, che si spegne solo quando imbraccia la chitarra in un bar e sgolandosi del buon whisky intona un blues, lo riporta sulla strada, e il matrimonio ben presto naufraga.
Fra caldo torrido, ventilatori accesi, chitarre pizzicate, ugole corrose dall’alcol e donne prosperose, Robert continua a suonare.
Fra uomini tormentati, vecchi giradischi, binari dissestati, crocevia per mille diversi inferni e il melmoso Mississippi che scorre lento, anche il Diavolo lo ascolta.
Narra la leggenda che a Robert, chitarrista non propriamente eccelso, una notte capiti qualcosa di davvero strano. Voci dell’epoca parlano di un incontro fra il giovane bluesman e un uomo sinistro interamente vestito di nero. Un incontro avvenuto allo scoccare della mezzanotte a un crocevia desolato, dove l’uomo in nero avrebbe concesso al giovane un ineguagliabile talento chitarristico in cambio della sua anima. D’altronde Mr Belzebù ha sempre amato il tormento e l’estasi, quindi come potrebbe non amare il blues?
E in questa ormai mitica leggenda probabilmente qualcosa di vero c’è. Johnson, infatti, nel suo girovagare, effettivamente incontra un tipo davvero inquietante e misterioso. Si tratta di un bluesman di nome Ike Zinneman. È lui a insegnargli, forse, quella tecnica chitarristica incredibile che diventerà il suo marchio di fabbrica. Quella che molti anni dopo, quando Brian Jones farà ascoltare a un giovane Keith Richards un’incisione di Johnson, convincerà Keith che a suonare quell’incredibile musica siano due chitarristi e non uno solo.
E questo Ike misterioso lo è sul serio, ma così tanto che non ci sarebbe da stupirsi se fosse davvero un emissario di Belzebù in persona: nessun dato anagrafico, nessuna fotografia, nessuna notizia certa. Di lui si sa solo una cosa: adora suonare nei cimiteri la notte, tra lapidi gelide come la morte. E quando lo fa, spesso si porta dietro Robert.
Sia quel che sia, il goffo Robert Johnson diventa un chitarrista incredibile. La sua stupefacente tecnica chitarristica è ancora oggi considerata una delle massime espressioni del Delta blues, senza dimenticare i suoi testi oscuri, che spesso parlano di spettri, demoni e alcune volte si riferiscono direttamente al suo presunto patto col Diavolo. Una leggenda che Johnson ama e probabilmente alimenta lui stesso. Una leggenda a cui contribuiscono i racconti dei vari musicisti che hanno a che fare con lui, tutti concordi nell’affermare che Robert fosse un chitarrista abbastanza mediocre all’inizio. Poi morì sua moglie, lui sparì per un anno e al suo ritorno era un autentico fenomeno.
Altri aneddoti raccontano che il bluesman fosse capace di riprodurre nota per nota qualsiasi melodia ascoltasse, per radio come in un locale affollato, e senza porvi la benché minima attenzione.
E se la sua vita è stata una lunga notte misteriosa e spettrale, la morte, avvenuta a soli 27 anni, è anche peggio.
È la sera del 13 agosto del 1938 e Johnson, insieme ai musicisti Sonny Boy Williamson II e David Honeyboy Edwards, si sta esibendo al Three Forks, un locale a 15 miglia da Greenwood nel quale da qualche settimana i tre suonano ogni sabato sera.
Robert, al solito, non ha perso tempo, seducendo la moglie del proprietario del locale. All’uomo non importa, basta che il leggendario bluesman, perché ormai il suo nome è sulla bocca di tutto il Mississippi e anche oltre, suoni come si deve e tenga un profilo basso che non alimenti le chiacchiere. Ma quella sera, complici l’alcol e il caldo torrido, Johnson e la signora iniziano a lasciarsi andare ad atteggiamenti davvero troppo espliciti. Quasi imbarazzanti, come racconterà un testimone.
Il gestore del locale non può tollerare un affronto così spudorato e, forse, decide di vendicarsi, vendicarsi alla maniera del Sud.
Durante una pausa del concerto a Robert viene passata una bottiglia da mezza pinta di whisky già stappata. Sonny e David lo mettono in guardia: non è prudente bere da una bottiglia senza tappo. In quegli anni non è raro che i musicisti vengano drogati e derubati dei propri strumenti e dell’incasso della serata, meglio non correre rischi. Ma Robert, già ubriaco, manda tutti al diavolo e se la sgola in fretta e furia.
Poco dopo inizia a sentirsi male, la brezza alcolica lascia spazio allo stordimento e alla confusione tipica dell’avvelenamento. Trasportato all’ospedale, muore dopo tre giorni d’intensa agonia, senza che qualche medico trovi il tempo di fornirgli le cure necessarie, o perlomeno affievolirne i tormenti.
Ci lascia 29 storiche registrazioni, effettuate tra il 23 novembre 1936 e il 20 giugno 1937, 29 registrazioni che costituiranno una base imprescindibile per intere generazioni di musicisti a venire, da Muddy Waters a Bob Dylan, passando per Rolling Stones, Cream, Allman Brothers, Eric Clapton, Jimi Hendrix, Led Zeppelin, e chiunque vi venga in mente fra le leggende del rock dalla sua nascita ad oggi.
E ci lascia pure quella symphaty for the devil, come dicevano gli Stones, che diventerà parte integrante dell’immaginario rock, fra musicisti compiaciuti, lotte dei benpensanti, miti, leggende, tragedie, commedie o semplici cliché.
Probabilmente il mondo del rock sarebbe stato ben altra cosa se quella notte, al crocevia per nessuna parte, un giovane nero poco dotato non avesse sacrificato la propria anima al demone della musica.
O almeno, è bello crederlo…
Tratto da Rock is Dead – Il libro Nero sui Misteri della Musica
(In libreria e in tutti gli store online)
Il Sottile piacere della malinconia
(ovvero: essere malinconici non è reato, playlist per quei momenti lì)
di Federico Traversa
La società attuale non contempla la tristezza, l’imperfezione e tantomeno la malinconia. Devi essere sempre felice, sorridente, sano, bello, ben conscio di dove stai andando e perché. L’ aspetto vincente tout court dell’esistere è ormai talmente importante da aver fatto nascere un florido business per aiutarti a raggiungere l’obbiettivo. Mental coach, motivatori, maestri di yoga, pagine social sul miglioramento personale, guru del pensiero positivo, eccetera, eccetera, eccetera.
L’importante è non apparire insicuri, tristi e malinconici. L’importante è nascondere le proprie debolezze davanti al mondo.
Ho sempre odiato questo modo di vedere la vita, e per svariate ragioni. Sono sempre stato un tipo insicuro, spaventato, spesso a pochi passi dal cadere di sotto, vittima se non proprio di una profonda tristezza certamente di un’avvolgente malinconia. Così avvolgente da diventare quasi una sorta di coperta calda a cui, dopo tanti anni, mi sono affezionato. Già perché la malinconia non è una cosa brutta. Anzi. Ogni tanto vivere come dentro un video triste che va avanti al rallentatore per ore e ore non è niente male. Soprattutto se hai la musica a farti compagnia.
Tutti noi, durante un momento difficile, ci siamo ritrovati avvolti nel nostro maglione sformato – quello che indossiamo in quelle giornate un po’ così – ad osservare la pioggia che cadeva dalla finestra mentre una playlist a tema invadeva la stanza con i suoi suoni perfetti per la situazione. Proprio come se ogni canzone ci scavasse dentro. Adoravo farlo a vent’anni e adoro farlo anche oggi. Certo, adesso che sono papà posso cullarmi molto meno nell’apatia esistenziale ma ogni tanto, se capita, mi concedo anche io di essere malinconico. Vedo il ‘momento nostalgia’ non come un nemico da abbattere ma uno stop necessario per rallentare un po’, ripassare le cose veramente importanti e poi ripartire. Anche perché con la tristezza c’è poco da fare, devi solo aspettare che passi. Come un temporale. Quando piove non andiamo ad agitare i pugni contro le nuvole urlando al cielo di smetterla di frignare, perché sappiamo non servirebbe a nulla.
Ci sediamo comodamente al riparo, osserviamo le nuvole e aspettiamo che spiova, cosa che regolarmente accadde.
Come insegnano i grandi saggi orientali – non quelli in tuta da ginnastica che fanno milioni di views su youtube e poi finiscono sui giornali per aver molestato qualche ragazzino, parlo dei saggi veri – arriva la tristezza, poi la gioia, ancora e ancora. Tutto viene e tutto va. È solo un mood mentale, che prima e poi passerà esattamente come prima o poi smette sempre di piovere. Tolta quella tristezza che proviene da effettivi traumi, che so una malattia, un lutto, o l’amore della nostra vita che ci lascia per sempre, il 90% della nostra infelicità nasce dentro di noi e dipende da quante nuvole ci portiamo dentro in quel momento. Infatti gli stessi accadimenti vengono vissuti in maniera diversa a seconda del nostro umore. Se ci tamponano in macchina una mattina in cui siamo incazzati, in ritardo e siamo stati appena multati dai vigili ci incazziamo come dei puma, ma se invece ne veniamo da casa di quella rocker tatuatissima che è la nostra vicina, la quale ci ha accolto in perizoma prima di sedurci sulle note di White and Bleed degli Slipknot, e in più abbiamo vinto un biglietto omaggio per il concerto dei Rolling Stones, probabilmente di quel colpetto sul parafango non ce ne fregherà niente. Congederemo il tamponatore del mattino con una pacca sulla spalla, semplicemente dicendogli: “Tranquillo, fratello, son cose che succedono, vai pure. E buona giornata”.
Capito l’antifona? La macchina umana è tanto semplice quanto complessa.
Tornando alla malinconia, quindi, il mio consiglio è di godersela tutta. Negli anni ho addirittura compilato con certosina pazienza una playlist per l’occasione. Fidatevi, la mia ‘malincolist’ non tradisce mai, nata per essere sparata in cuffia a random quanto si è giù. È molto varia e lunghissima. Ripeto si tratta di un lavoro di anni. Alcune canzoni le ho inserite per il mood, altre perché hanno significato qualcosa di particolare per il sottoscritto. Non necessariamente sono tristi, magari semplicemente meditative, profonde o solo capaci di cristallizzare la mia malinconia in qualcosa di bello.
Gli artisti, come anticipato, sono molto eterogenei.
C’è dentro She Lost Control dei Joy Division, Black dei Pearl Jam, Down in a Hole degli Alice in Chains, Talk Show Host dei Radiohead, Soul to Squeeze di Red Hot Chili Peppers, Blessed to Be a Witness di Ben Harper, Entre dos Acqua di Paco de Lucia, Mama Wolf di Devandra Banhart, Ghost Song dei Doors, Spirit Bird di Xavier Rudd, Everybody Here Wants you di Jeff Buckley, Hurt cantata da Jonnhy Cash. E ancora: My Vida di Manu Chao, Rooms della Jim Carroll Band, Merry go round dei Motley Crue, Love you like I Do degli Him, Out of Time Man di Mick Harvey, Come as You’re dei Nirvana, Patience di Nas e Damian Marley, Back to Black di Amy Winehouse.
Niente male, vero?
Ne ho anche una con solo pezzi in italiano. Si va da Vivere di Vasco a Ciao Amore Ciao di Tenco passando per La Ballata dell’amore Cieco (De Andrè), Anima Latina (Battisti), Com’è Profondo il Mare (Dalla), Senza Vento (Timoria), Quello che Non c’è (Afterhous), La Cura (Battiato), Viba (Verdena), Zeta Reticoli (Maganoidi), Amore Disperato (Nada), Non Escludo il Ritorno (Califano) Aspettando il Sole (Neffa), Messico e Nuvole (fatta dai Bluebeaters), Aida (Rino Gaetano), Signora Luna (Capossela), Mare Mare (Carboni) e ovviamente Mary dei Gemelli Diversi. No, dai quest’ultima non è vera.
Anzi fate, una cosa, mandatemi via mail anche la vostra playlist per godere dei sad moments, così cambio un po’. L’aspetto.
In conclusione, amici, non c’è niente di male a essere giù di morale, a sentirsi degli impiastri o a non apparire fighi come ci vorrebbero gli altri. Essere forti non significa non andare mai al tappeto ma avere la capacità di accettare i brutti momenti, affrontarli e rialzarsi. E poi ricordate, le sensazioni che ci attraversano, belle o brutte che siano, sono come nuvole che attraversano il cielo. È sicuro che arriveranno come è sicuro che se ne andranno. Ma noi siamo il cielo, che sotto quelle nuvole, resta sempre azzurro.
Quindi, citando il Grande Lebowski, prendiamola un po’ come viene e, mentre lo facciamo, possibilmente ascoltiamo qualche bella canzone.
L’ultimo valzer – Un ricordo di Pau Donés degli Jarabe de Palo
Oggi si è spento Pau Donés, deux ex machina degli Jarabe de Palo.
Quando lo scorso aprile è riapparso dopo più di un anno di silenzio assoluto, ho capito che era tornato per un ultimo delicato valzer prima dei saluti. Magrissimo, sciupato, provato oltre l’immaginabile, eppure affascinante come e più di sempre, Pau ci ha mostrato fino all’ultimo che anche le malattie più terribili si possono affrontare senza lasciarsi spegnere il sorriso sulle labbra.
Be here Now, essere qui adesso, dicono i mistici orientali; che vuol dire controllare le proprie paure sul futuro e i propri rimorsi o rimpianti relativi al passato. I maestri spirituali lo consigliano da secoli ma è molto più facile a dirsi che a farsi, perlomeno per noi uomini comuni. Quasi impossibile se si soffre di una malattia incurabile alla quale, statistiche alla mano, sopravvive solo il 20% dei malati sulla distanza dei cinque anni.
Eppure c’è chi ci riesce, chi trova la forza e l’equilibrio per non sprecare nemmeno un secondo del tempo che gli resta e va avanti a giocare con la vita, ride in faccia alla morte e si gode il presente al meglio delle proprie possibilità.
Ed è così che ha fatto Pau, sin da quel maledetto pomeriggio dell’agosto 2015 quando, di ritorno da un lungo tour in Sud America, gli viene diagnosticato un tumore al colon con metastasi al fegato.
D’altronde una vita sulle montagne russe la sua lo è sempre stata, un costante alternarsi di successi e difficoltà.
Catalano purosangue, nato nel comune spagnolo di Montanuy, comunità autonoma dell’Aragona, l’11 ottobre del 1966, allo start della vita non parte benissimo. Dislessico, iperattivo, perde la mamma morta suicida a sedici anni e rimane da solo con il papà, due fratelli e una sorella più piccoli. Di colpo è costretto a farsi uomo, vietato perdere tempo. Eppure non si abbatte, si rimbocca le maniche e fa tesoro del suicidio della mamma per convincersi ancor più del fatto che la vita sia un bene prezioso e non vada mai sprecato. Senza considerare che prima di andarsene lei gli regala una chitarra elettrica e… niente, ciao, il futuro è scritto anche se allora ancora non lo sa.
Pau si impegna nello studio, lavora il doppio per via della dislessia, ma alla fine si laurea all’Università di Barcellona in Scienze Economiche Aziendali, più per far contento papà che per reale vocazione imprenditoriale. E infatti raccolto il pezzo di carta brucia i libri e si dedica a quello che davvero ama: scrivere canzoni che facciano star bene la gente e poi cantarle.
Mentre si mantiene lavorando in un’agenzia pubblicitaria, nascono gli Jarabe de Palo, che fanno centro già col primo disco, La Flaca; l’omonima canzone, un blues latino che racconta lo struggimento di Pau per una tremendissima mulata incontrata nella magica isola di Cuba, si trasforma in un successo mondiale e lancia il gruppo nel gota dei musicisti latini.
Con gli anni il suono si ammorbidisce, le sfumature stilistiche aumentano ma l’esito continua a mantenersi stabile, disco dopo disco.
Anche qui da noi Pau e i suoi vengono accolti a braccia aperte, un successo mainstream che li porta a esibirsi al Pavarotti and Friends e a collaborare con un altro maestro del pensiero positivo come Jovanotti.
Canzoni come Bonito, Depende, Agua, solo per citare le prime che mi vengono in mente, sono certo sappiano canticchiarle almeno tre italiani su quattro
Nel frattempo Pau fa una figlia, crescendola con tanto amore, gira il mondo, per un po’ abita a Berlino, sempre di corsa, sempre desideroso di vivere al massimo. Le tante estati a Formentera, i piatti di pesce al Quiosco Anselmo, un chiringuito de puta madre, le scalate in montagna, i concerti infiniti in tutto il mondo, la musica, immancabile e fedele compagna di una vita. Una vita sbranata, dicevamo, fino a quel maledetto pomeriggio di agosto, la diagnosi maledetta, le operazioni, la chemioterapia, una lunga riabilitazione piena di speranza. Già perché dopo l’operazione e le terapie quel bastardo di un cancro sembra sparito, e quando per i 50 anni esce il libro e il disco 50 Palos (un doppio album dove Donés duetta con tanti volti noti della musica italiana, dall’amico Jovanotti a Francesco Renga passando per Noemi e Kekko dei Modà…) lui posta una foto bellissima dove sorridente – una maglia dei Velvet Underground, le braccia aperte come ali sul mare blu e il sole caldo sul viso – dichiara al mondo di essere libero dal cancro.
Ma quella libertà dura poco, e ben presto la bestia ritorna.
Lo incontro brevemente a Bologna circa due anni fa, già sciupato ma ancora in forma, purtroppo la prevista intervista salta all’ultimo per un disguido. Conto di recuperarla al successivo concerto italiano, ma poi Pau peggiora e arriva l’inattesa chiusura di ogni attività e di tutti i social degli Jarabe de Palo; consapevole del poco tempo rimasto, Pau legittimamente sceglie di dedicare ciò che gli resta da vivere agli affetti veri, alla figlia Sara…
Il ritorno a sorpresa qualche mese fa, in piena emergenza Covid, lui e la sua chitarra sul terrazzo del nuovo appartamento di Barcellona, la faccia scavata dalla malattia ma il sorriso bellissimo dei giorni belli.
Un nuovo disco, Tragas o escupes, esce a sorpresa il 26 maggio. E qualche giorno prima un ultimo singolo, Eso que tu me das, leggero e allegro come da tradizione, nel cui video Pau canta con la consueta forza e sorride, e gioca con la vita, ancora e ancora, indicando a tutti una strada anche quando tutto dentro di noi, stavolta letteralmente, sta cadendo a pezzi. E intorno a lui e alla band balla la sua adorata Sara, bellissima nei suoi sedici anni, il viso celato da una maschera gentile.
Niente dura per sempre, niente rimane uguale a sé stesso per più di un secondo e quanta tristezza quando le persone belle e pulite lasciano questo mondo.
Ciò detto è molto meglio perdersi che non essersi mai incontrati.
Ciao Mr Pau, grazie di tutto. Ultimo valzer compreso.
Federico Traversa
La storia ci ha barrato con una X, Generazione X: cari anni 90 vi scrivo…
di Federico Traversa
Tutto iniziò con Beverly Hills 90210, che sarà stato stupido, vuoto e patinato quanto volete ma ha innegabilmente aperto le porte a un nuovo genere televisivo che ci torturerà negli anni a venire: il teen drama – per dirlo in modo figo, all’americana – o più semplicemente le serie televisive a puntate per ragazzi. Costruita sul modello delle telenovela sudamericane per casalinghe annoiate, moderatamente aperta nell’ affrontare tematiche attuali, seppur trattate con manate di vasellina e politically correct, BH 90210 ha segnato un paio di generazioni agli inizi degli anni novanta, compreso quella del sottoscritto. Classe 1975, vidi la prima puntata che non avevo nemmeno 16 anni e mi fece del male, visto che da allora tarai il pivello che ero sulle fattezze del bello e scorbutico Dylan McKay, una specie di James Dean ricco e problematico portato sullo schermo dal bravo e sfortunato attore Luke Perry. Capitemi, allora si andava in discoteca di sabato pomeriggio e la cosa più eversiva che si faceva era incollare il citofono del vicino calabrese del primo piano, un ex carabiniere in pensione, che ci bucava il pallone quando finiva sul suo terrazzo. Ero conteso da due ragazze in quel periodo, dolci e bellissime entrambe. Una era scura, l’altra bionda. Proprio come Dylan nel telefilm. E proprio come lui scelsi la bionda. Lo so, lo so, da rabbrividire quanto mi facevo coglionare dalla tv.
A staccarmi di dosso un po’ di patinatura, ci pensarono il cinema, i libri e la musica. A partire da “The Doors” di Oliver Stone, che mi presentò Jim Morrison. Il Re Lucertola spazzò via McKay in meno di un’estate e diventò la mia fonte d’ispirazione per la vita. Grazie a Jim, e alla sua scapestrata biografia ‘Nessuno Uscirà Vivo di qui’, scoprii l’amore per la poesia, la letteratura, Rimbaud, Baudelaire, Castaneda, la beat generation, e decisi che nella vita avrei fatto lo scrittore. E l’ho fatto, ragazzi. Ok, non sono diventato Bukowski ma ci campo con un certo stile.
Impossibile non citare poi, nella mia formazione artistoide, Twin Peaks, innovativo capolavoro di David Lynch, una serie capace di segnare per sempre un’epoca.
Alla voce disimpegno, invece, come dimenticare il Karaoke e quegli anni in cui folletto Fiorello fece credere agli italiani che anche senza il mandolino restavamo un popolo di cantanti. Oppure Non é la Rai, che invece ci ricordò che siamo sempre stati, e sempre saremo, un popolo di eterni segaioli. Già che si fa riferimento a Onan, meritano una citazione i culi al vento delle 18e30, quando su Italia 1 andava in onda Baywatch di Pamelona Anderson. E anche gli agghiaccianti balletti sexi di Spice Girls et simili.
Stasera la mia mente torna a quelle mattinate in giro, a saltare scuola appena possibile per gli scioperi o l’occupazione, ai bombardamenti nato sul’Iraq, alla guerra che per la prima volta arrivava in diretta televisiva. Craxi, tangentopoli, l’arrivo di Berlusconi, il Milan di Capello che vinceva molto ma stava sulle palle a tutti. Le domeniche allo stadio, noi sempre in uniforme: bomber, dr Martens, jeans strappati e sciarpa d’ordinanza. La camicia, il maglioncino a righe e il montgomery solo per entrare in discoteca.
E ancora: i film horror in vks affittati il sabato pomeriggio in videoteca, le playlist, che allora chiamavamo compilation, che facevi alla tipa che ti piaceva e dove non potevano mancare canzoni come Waves of Change degli Scorpions, Don’t Cry dei Guns e Home Sweet Home dei Motley Crue. Ma anche Vivere o Senza Parole del Blasco. E sto citando proprio le più ovvie. Senza scordare il wrestling commentato da Dan Peterson, le puntate di Willy Superfigo di Bel Air, di Casa Keaton, dei Robinson, fino ai concerti bubblegum, ma indimenticabili, di Michael Jackson. Cosby e Jackson: il papà buono che tutti avremmo voluto avere e lo zio strambo e pieno di talento che amava i bambini. Avessimo saputo cosa c’era dietro…
Poi arrivarono i Nirvana, e Kurt Cobain spazzò via la paura di noi ragazzi di mostrarci per quello che eravamo di fronte a un mondo che stava cambiando. All’improvviso far vedere le proprie debolezze, la propria rabbia e la propria paura non era più oggetto di vergogna come per il macho anni ottanta ma qualcosa che si poteva, anzi doveva fare.
Intanto tutto si stava contaminando, tutto cambiava, gli steccati fra i generi crollarono come castelli di carte vecchie. Il fenomeno dei rave invase le nostre notti, a livello mainstream si affermarono proposte musicali inusuali quali Prodigy, Moby, Fatboy Slim o i Chemical Brothers. Il rock inglese invece si vestiva di vintage e, ribatezzatosi brit pop, proponeva moderne versioni di Beatles e Rolling Stones con gruppi tipo Oasis, Blur, Verve, Stone Roses e così via.
Lontano dal mondo dei rave per una radicata idiosincrasia verso l’insopportabile cassa dritta e mai stato troppo affascinato dai Fab Four – figurarsi i loro cloni – trovai rifugio nella mescola che odorava di contaminazione, nei libri e nei film: Manu Chao, il movimento delle Posse, il gansta rap di Pac e Biggie, i reportage di viaggio di Terzani, The Beach di Alex Garland, vera bibbia per chi in quegli anni virava verso l’Asia, lo schiaffo di Palhaniuk in Fight Club, la carezza pop di Nick Horby con Alta Fedeltà, la siringata di poetico disgusto del Welsh di Trainspotting e Colla, o le botte di John King col suo Fedeli Alla Tribù. Ovviamente tutto Bukowski, e poi John e Dan Fante. Il Brizzi imbastardito di Bastogne e Tre Ragazzi Immaginari. Andrea De Carlo. Gli incubi up-class di Brett Easton Ellis e quelli profumati di minimalismo yuppie di Jay McInerney. I diari di basket del grande Jim Carroll, le illuminazioni tornate attuali di Hesse in Siddharta. E come dimenticare il caschetto scazzato e i pantaloni over size di Natalie Imbruglia, i Red Hot Chili Peppers di Under the Bridge, i film di Gus Van Sant, i surfisti fuorilegge di Point Break, e poi Intervista col Vampiro, i dialoghi surreali di Pulp Fiction, la scena underground italiana che diventa mainstream: Subsonica, Afterhours, Africa Unite, Prozac + (che la terra ti sia lieve Elisabetta Imelio), Esa, Bluvertigo, Sottotono, ecc. E poi Leo di Caprio che fa Romeo recitando Shakespeare in camicia hawaiana, l’ugola delicata di Jeff Buckley, quella consapevole di Ben Harper, oppure i video degli Aereosmith con Alicia Silverstone e Live Tyler.
“Non puó piovere per sempre” diceva il martire Brandon Lee nel Corvo.
“Io sono ancora vivo” rispondeva Eddie Vedder nell’iconica Alive dei Pearl Jam.
Ma vi ricordate?
Quanto si era belli, puri, appassionati, difettosi e fragili allora. Tanto tanto fragili. Non era neanche tutta colpa nostra. Eravamo una generazione brutalmente schiacciata, presa in mezzo tra la naufragata illusione che il capitalismo made in Usa ci avrebbe resi tutti ricchi degli ottanta, e la certezza che nel nome di quella falsa illusione ci avevano fregato persino la sedia da sotto il culo dei 2000 and more.
La storia ci ha barrato con una X, Generazione X, come il bel libro di Douglas Copeland. E così verremo trasmessi ai posteri.
Oggi di quello strano decennio restano solo i nostri ricordi, frammenti confusi, raffreddati dagli anni, di un momento che é stato veramente nostro giusto il tempo di uno sputo. Atterrato neanche troppo distante.
Ma Cristo di un Dio se ne é valsa la pena…
“Una tranquilla estate di paura”di Federico Traversa
Come estate non è stata il massimo, ammettiamolo. La definirei “Una tranquilla estate di paura”, storpiando il titolo di un celebre film.
La foresta amazzonica che brucia. Sempre più plastica ad affogare l’oceano e avvelenare i pesci. L’ebola in Nuova Guinea che ammazza con disarmante facilità ma siccome non esce dall’Africa e non c’è da lucrare troppo sul vaccino – che tra l’altro già c’è – i fratelli neri vengono lasciati morire tra atroci sofferenze. I ghiacciai che si sciolgono alla velocità della luce. Un mondo le cui proiezioni più ottimistiche vedono a un passo dall’autodistruzione. E noi sui social a chiederci chi ci sia dietro Greta Thunberg, cosa realmente voglia questa nuova lobby ecologica o, peggio, perdendoci in ridicole quanto inutili ipotesi sulla crisi di governo.
Già perché mentre il mondo avvelenato ‘ha da pensar a cose più serie, costruir su macerie e mantenersi vivo‘, qui da noi è caduto pure il governo gialloverde, con buona pace di tanti ma non di tutti, e sta per nascere quello giallorosso. Praticamente si fa il giro dell’arcobaleno nella speranza che un daltonico ci metta una pezza.
Roba tosta, amici, in tutti i sensi.
Ma partiamo dagli incendi in Amazzonia, il polmone verde che ossigena questo nostro pazzo mondo. E noi che si fa? Lo si preserva? Macché, si arrostisce una bella fetta di foresta, che già è in pericolosa regressione da decenni, e tanti saluti. Ma perché siamo tanto idioti? La risposta è quasi più stupida della nostra economia di massa: per far posto agli allevamenti intensivi di bestie o di mangimi per le suddette.
Amici vegani non esultate. Se smettessimo di mangiare carne – scelta comunque etica che condivido e apprezzo – non si risolverebbe il problema e lo stesso enorme spazio verrebbe probabilmente utilizzato per coltivare la beneamata soia, che sta alla base di qualsiasi dieta non carnivora.
Il problema è un altro: a questo mondo ormai siamo in troppi. Nel 1900 si stima che la popolazione mondiale fosse di un miliardo e 650 milioni. Nel 1950 è salita a due miliardi e mezzo e nel 2000 è arrivata a sei miliardi mentre oggi siamo circa 7 miliardi e settecento milioni di persone. Praticamente in cento anni ci siamo quasi quintuplicati! Peccato che la superficie della terra sia sempre la stessa, anzi quella vivibile sempre meno perché con il riscaldamento globale alcune zone stanno diventando non più adatte alla vita.
E quindi? Quindi anche un bambino capirebbe che così non può funzionare. E sempre quello stesso bambino suggerirebbe di smetterla di invitare la popolazione a consumare risorse come se fossero infinite, smettere di esortare le persone a fare figli su figli perché tra poco non ci saranno più spazi e risorse a sufficienza per tutti. Ma il nostro sistema economico si guarda bene da suggerire una cosa del genere perché si basa sul consumo e sui debiti contratti dai nuovi nati, che saranno chiamati a lavorare per pagare le misere pensioni degli ultrasettantenni (perché fino ad allora si sarà costretti a lavorare fra non molto) che, grazie al business delle medicine, forse vivranno qualche anno in più.
Un sistema pazzo e fallimentare che quando crollerà farà tanto, tantissimo rumore. Un sistema che non può vincere. Perché è perverso – come diceva il grande Tiziano Terzani – pensare che progresso voglia dire crescita. Un concetto assurdo legittimato dagli occhi a forma di dollaro e dall’ignoranza di chi tira le fila di questa sanguinaria economia globale. Ma perché invece di inseguire la crescita ogni anno non proviamo a produrre lo stesso lavorando e consumando di meno?
Simili pensieri nell’economia attuale sono considerati bestemmie. Quando in qualità di responsabile editoriale di Chinaski Edizioni vengo invitato all’annuale incontro con le varie reti vendita oppure le librerie di catena, non ci si raffronta mica sui programmi, sull’etica, sui sogni. Manco per le palle. Si ragiona sui numeri. Quest’anno hai fatturato 10 con tre libri, un altr’anno devi fare 15 con cinque libri. E se tu provi a dire: “Ok, ma se facessi 9 con due libri sarebbe ugualmente buono, non credete?” vieni additato come un hippy di merda che non sa stare al mondo e non ha voglia di lavorare. Uno smidollato senza sogni, che si accontenta.
E qui parlo del nobile mondo dell’editoria ma credo che negli altri ambienti forse sia anche peggio.
Non capiamo più che siamo qui di passaggio, che la transitorietà tanto nostra che della materia che possediamo deve essere l’unica bussola per vivere in maniera più consapevole, distaccata e fiera, con il traguardo ultimo di lasciare questo mondo che ci ha accolto un po’ meglio di come lo abbiamo trovato. ‘Fasti non foste a viver come bruti‘ scriveva Dante, e nemmeno per consumare a bocca aperta come maiali in un porcile aggiungerei. La natura non è lì perché l’uomo ne faccia quello che vuole. La vita è una danza di tutte le componenti dell’universo che funziona al meglio quando è armonica. È un oceano pieno di plastica non è armonico, così come non lo sono una foresta che brucia, file chilometriche di auto incolonnate per chissà dove, le zucchine e i pomodori tutto l’anno o il mangiare frutta e carne che vengono da paesi che non hai mai sentito nominare, distanti anni luce esattamente come lo siamo noi da quella magnifica armonia che sta alla base della vita.
Occhio perché se questa è stata una tranquilla estate di paura, le prossime potrebbero essere “The Day After”, parafrasando un altro vecchio film che mostrava il mondo il giorno successivo a un conflitto nucleare. Ma se allora la fine era segnata dalla bomba atomica oggi è tutto, se possibile, ancora più stupido eppure sottile.
Ci estingueremo per comodità: un peccato mortale.
Quel live di Battiato all’ombra della luce
di Federico Traversa
Arrivai ad Alassio comodo, un’oretta prima del concerto. Con mia moglie Daria – incinta di quello che circa sei mesi dopo sarebbe diventato Leonardo, per tutti “little satan, il nostro secondo figlio” – avevamo deciso che niente ci avrebbe impedito di vedere il concerto del maestro Battiato. Non le nausee, non il lavoro, non il dover tornare a rotta di collo a casa entro la mezzanotte per liberare la babysitter del nostro primo, tranquillissimo figlio Alessandro – per tutti “il piccolo Buddha”. Nessuno poteva rubarci quella bella serata d’estate che avevamo deciso di regalarci prima di tuffarci in una nuova esperienza da genitori e in tutta una serie di allucinanti problemi che – allora questo non lo sapevamo ancora – la vita presto ci avrebbe sbattuto senza garbo sull’uscio di casa.
Avevo inoltre saputo da un amico giornalista molto vicino a Battiato, che il maestro era prossimo al ritiro e quella sarebbe stata una delle ultime occasioni in cui vederlo dal vivo. Il mio amico non si era lasciato scappare nient’altro, resistendo ai miei reiterati tentativi di saperne di più e trincerandosi dietro un “mi spiace non posso dirti altro”.
Il parco San Rocco sembrava un teatro greco, una location altamente suggestiva. E noi stavamo aspettando un artista che poteva tranquillamente passare per la reincarnazione di Platone. Tutto tornava, insomma, eccome se tornava.
Il tempo di ritirare gli accrediti e mangiare un panino sui gradoni e sul palco salì Giovanni Caccamo, vincitore di un Sanremo Giovani di qualche anno prima. Ugola delicata e un tocco al pianoforte abbastanza efficace le sue armi per scaldare il pubblico.
Mi spostai dietro il palco proprio poco prima dell’arrivo di Franco. Sorridente, etereo, divertito ed elegante uscì da un macchinone scuro all’improvviso. Riuscii ad intercettarlo al volo e a regalargli il mio libro sulla meditazione trascendentale, prima che venisse strappato dallo staff e condotto negli spogliatoi, giusto un piano sotto. Dieci minuti dopo eccolo risalire, fra il boato di almeno tre generazioni diverse. Una devozione quasi religiosa che Battiato si era guadagnato emozionando e creando bellezza in modo personale e totalmente suo per oltre quarant’anni. E a chi gli aveva chiesto, quasi come fosse un rimprovero, come avesse fatto lui, cantante sperimentale d’avanguardia, ad adeguarsi al becero ambiente del pop da classifica, candidamente aveva risposto: “Semplice, ho portato il mio mondo nel loro, e non il loro nel mio”.
Quella sera aprì con L’Ombra della Luce, che intonò proprio mentre il sole stava tramontando. Da brividi.
Difendimi dalle forze contrarie
La notte, nel sonno, quando non sono cosciente
Quando il mio percorso si fa incerto
E non abbandonarmi mai
Non mi abbandonare mai
L’orchestra – piano, effetti e quattro archi – cuciva sottofondi delicati, sui quali la voce impastata di misticismo e mestiere dell’artista catanese si accomodava consapevole, con lo stesso confort con cui il suo karmico sedere poggiava sul solito tappeto persiano, immancabile seduta a ogni concerto.
Con Daria era una gara a chi si emozionava di più. Per lei Franco era unico. Per me pure. Spiritualità e musica erano le passioni che accendevano le mie notti invitandomi a spendermi durante il giorno. E il maestro Battiato le incarnava entrambe.
Con Le sacre sinfonie del tempo provai pura e autentica beatitudine.
Che siamo angeli caduti in terra dall’eterno
Senza più memoria: per secoli, per secoli
Fino a completa guarigione
Avevo ancora gli occhi chiusi quando attaccò una sequela di classici, con la beatitudine ad allargarsi a tutto il pubblico, anche quello meno attento, che letteralmente impazzì. La Cura, Summer on a solitary Beach, La Stagione dell’Amore, E Ti Vengo a cercare, Gli Uccelli, e via con alcuni dei passaggi più conosciuti della sua variegata discografia.
Due ore di concerto che volarono alte, come i gabbiani che regnano sui cieli della riviera. Al momento del bis i più esagitati invasero pacificamente il palco per stringere la mano al maestro, complimentarsi, farsi una foto. E lui sorridente, disponibile, empatico, a eseguire gesti e consuetudini di una vita trascorsa sul palco.
Poi, al suono di Le Nostre Anime il buon Franco salutò tutti, scese le scale, salì veloce in macchina e via.
Il mistico aveva lasciato la città.
Qualche mese dopo la carriera.
E dopo qualche altro silenzioso e chiacchierato anno, anche questo mondo.
Sciolto in un oceano di silenzio.
Franco Battiato, un artista unico e solo, diverso da tutti. D’altronde, come diceva lui stesso nell’omonima canzone, le aquile non volano a stormi.