Cara Tribù, anche quest’anno inizia il Salone del libro di Torino, e anche quest’anno noi non ci saremo. Si tratta di una scelta, che facciamo per il secondo anno di fila dopo quattro presenze consecutive, che nasce naturalmente da considerazioni di ordine pratico, siamo prima di tutto genovesi – che non vuol dire solo tirchi, ma accorti – e non possiamo non notare che i costi salgono e l’interesse del pubblico scema. Ma il fattore economico è solo una piccola parte del problema.
Il problema vero è il contesto.
E il contesto parla di un mercato dell’editoria sempre più in mano ai grandi gruppi, che al Salone di Torino spadroneggiano monopolizzando eventi, spazi, pubblico. L’oligopolio tutto italiano, che vede pochi gruppi a gestire sia pubblicazione, che distribuzione e vendita, sta strangolando la credibilità di questo settore, e intanto le librerie indipendenti chiudono, le case editrici indipendenti chiudono, le testate indipendenti chiudono, l’informazione si dissolve sulla rete informatica coll’illusione di sentirsi meno sola. E intanto, il pubblico ha sempre meno scelte, e sembra quasi esserne contento. E intanto, il consumo di libri, di qualsiasi natura, sta diventando un fatto davvero marginale, in questa che dovrebbe essere l’era della comunicazione. Cosa sta mancando, davvero? Non abbiamo diagnosi né ricette noi di Chinaski. Sappiamo soltanto che la nostra produzione soffre, incespica, ma continua, cocciuta e sorda, di fronte a tutti gli spauracchi che ci vengono agitati contro, più o meno in buona fede. Sappiamo soltanto che adesso un libro che ieri, nel 2011, poteva raccogliere 1500 prenotazioni, e non stiamo parlando di cifre impressionanti, oggi ne fa a mala pena 400. Sappiamo solo che il nostro fatturato in libreria ieri era l’85% del nostro fatturato totale, oggi non arriva al 30%. E non è merito dell’aumento del nostro fatturato totale, tutt’altro. Sarà solo colpa nostra? Di certo, non siamo più sicuri di trovare in questo tipo di fiera il contatto con il nostro pubblico, con la nostra Tribù, che continua a crescere, nonostante la poca attenzione che il circo della comunicazione ci ha normalmente rivolto, nonostante il fatto che sia sempre più difficile fare impresa in questo paese, nonostante l’incessante trasformazione dell’editoria in mercato di mero consumo, a discapito di tante idee interessanti, ma che non sono abbastanza rivestite del dovuto clamore mediatico. Di certo, nonostante tutto, continuiamo a fare libri, e andremo anche a diverse fiere, ma di quelle senza pretese, di quelle fatte per amore dei libri e delle parole, fatte per esprimere comunità di interessi e orgoglio per il proprio lavoro. Non siamo gente che lo fa per il gusto del bel gesto. A noi piace vendere libri, e piace vedere le persone felici di acquistare i nostri libri. E pensiamo sia lecito sperare di guadagnarci sopra il giusto. Quello che non ci piace è la cancellazione dell’istruzione dai pilastri di fondazione del Paese, quello che non ci piace è l’eliminazione delle persone in favore dei personaggi, quello che non ci piace è l’impoverimento del linguaggio, l’impoverimento delle coscienze. Chiaramente, non è tutta colpa del Salone del libro di Torino, ma questo evento è diventato un po’ un simbolo di tante cose in cui non riusciamo più a riconoscerci, senza per questo sentirci né migliori né peggiori di quelli che adesso sono a Torino ad esporre, e sono tanti, tra i quali anche tanti nostri colleghi piccoli e tostissimi che hanno tutta la nostra stima. Ma la sgradevole sensazione di essere il contorno decoroso che rende accettabile l’ennesima esibizione di forza da parte dei soliti noti stiamo cercando di togliercela di dosso. Oggi un grande editore italiano lancia un nuovo formato di libro. Forse può essere una soluzione in più per affrontare la crisi, anche se si tratta di una soluzione assai costosa dal punto di vista della produzione, e che non sarà facile da diffondere, nemmeno per cotanto colosso. Noi restiamo piccoli per un altro po’ e cerchiamo di continuare a dedicarci ai contenuti. E ai nostri lettori.
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