IO AD ALBERTO LO CHIAMO MAESTRO
Se oggi scrivo di musica, con un occhio particolare alla black music e, entrando nello specifico ancora più specifico, al reggae, il merito è di due persone in particolare, forse tre.
La prima è indiscutibilmente Bob Marley.
La forse terza è Michael Jackson.
La seconda, senza ombra di dubbio, risponde al nome di Alberto Castelli. Con i suoi programmi in radio e le accorate recensioni di incredibili dischi che profumavano di jazz, blues, reggae e soul, il vecchio mods romano mi ha spalancato le porte di un mondo magico che mi ha portato altrove.
Dopo averlo letto e ascoltato per anni, ho timidamente approcciato l’autore di questo libro 10 anni fa, dopo aver terminato la prima stesura di Bob Marley In This Life. Gli scrissi una lunga mail dove lo supplicavo di leggere il mio libercolo su Tuff Gong e, se lo riteneva meritevole, scriverne una postfazione. Non me la sentivo di approcciarmi a Marley senza il beneplacito di uno dei più profondi conoscitori italiani del profeta del reggae. E Alberto quella simbolica benedizione me la diede, sottoforma di un paio di cartelle che con gioia inserii nel libro. E fece di più, accettando di presentare il volume con me nella suggestiva Reggae University, all’interno del Rototom Sunsplash, senza ombra di dubbio il festival reggae più bello e seguito d’Europa, che allora si teneva ad Osoppo, nel verde più verde, ed era uno spettacolo di balli, tende, musica e colori. Quello che non sapevamo, né io né Alberto, è che quella sarebbe stata l’ultima edizione di quella manifestazione in Italia, e che dall’anno successivo il Rototom si sarebbe scandalosamente trasferito in Spagna per via dei soliti impedimenti, burocratici e non solo, con cui è costretto a combattere chi cerca di organizzare qualcosa in questo paese. Ma non divaghiamo.
Quel pomeriggio incontrai per la prima volta Alberto di persona, l’immancabile basco in testa, gli occhiali da sole e il sorriso caldo di chi, come dice lui, “cerca di vivere elegantemente in circostanze difficili”.
Ero emozionato ma lui mi guidò in una bella chiacchierata che iniziammo davanti a un pubblico di una quarantina di persone, ed eravamo già belli soddisfatti. Poi ci distraemmo un attimo, un aneddoto sul king di qua, uno su Lee Scretch Perry di là, e quando alzammo la testa la sorpresa: il tendone che ospitava la Reggae University era stracolmo, non c’era un posto libero, mentre una marea di gente continuava a entrare restando in piedi. Il gasamento per essere capaci di simili sold out svanì quando ci rendemmo conto del motivo di quella ressa. Dietro di noi stavano – in attesa di iniziare una conferenza che non era stata annunciata ma volata di bocca in bocca grazie al passaparola proprio per evitare troppo afflusso – Chris Blackwell e Bunny Wailer.
“Mamma mia” disse Alberto mentre salutavamo un pubblico molto generoso con noi nell’applauso e incassavamo pure il sorriso benevolo di Chris che, abbronzato, con la camicia di jeans e il cappellino verde militare, ricordava vagamente Vasco Rossi, però un po’ più magro. Ma non lo era. Era invece l’uomo che aveva fondato la Island, lanciato Bob Marley fra il pubblico bianco, messo sotto contratto gli U2 e tanti, tanti altri. Bunny, vestito di bianco, con bastone d’ordinanza e occhiali a specchio, al contrario sembrava un re che non regalava sguardi e cenni a nessuno, molto meno affabile dell’ex capoccia della Island.
La conferenza fra i due fu al fulmicotone. Il pacifico Chris cercava di mantenerla leggera, condividendo ricordi e curiosità divertenti. Peccato con Bunny non fosse di quell’idea e iniziò ad andarci giù pesante, accusando la Island di avergli fregato dei soldi, Blackwell di essere un truffatore, eccetera eccetera. Fu davvero pazzesco e probabilmente anche ingiusto, se si considera quello che ha fatto Chris per la diffusione del reggae nel mondo.
Ecco come andò il mio primo incontro col maestro Castelli che da allora – e da quando è nata Chinaski Edizioni, la casa editrice che cerco di dirigere con l’aspirazione di creare una piccola Trojan della letteratura musicale – sogno di pubblicare. E dopo anni il mio desiderio è stato esaudito con il libro migliore che si potesse realizzare, quello che meglio si addice alle caratteristiche di Alberto, che è uno storyteller nato, un bluesman della parola e del racconto, capace di portarci con stile in un lungo viaggio attraverso gli anni d’oro della musica black, dove il groove che suona è motore e carezza per l’anima. Un orgoglio nero che passa con nonchalance da Otis Redding a Bob Marley, da Quincy Jones a Gil Scott Heron, Da Muhammad Ali a Marvin Gaye, dal southern soul ad Amy Winehouse, dalla Motown alla Stax, da Kareem Abdul-Jabbar ad Al Green.
Capito che roba?
Questo non è solo un libro, è un pezzo fondante di storia della musica, una radio distorta e lontana, quasi magica, che vi consiglio di leggere (o sentire? Boh, ve l’ho detto, è magica) la notte, accompagnata dall’ascolto dei brani che racconta. Possibilmente amandovi alla fine di ogni capitolo. Da soli, in coppia, in gruppo, come vi aggrada.
Probabilmente se spargessimo nell’aria una playlist con una piccola parte delle canzoni citate in questo libro il tasso delle nascite aumenterebbe del 300%. E anche quello delle rivolte contro le funeste maglie del potere… dai, sto di nuovo divagando.
Davvero, questo è il libro giusto scritto dallo scrittore giusto sugli artisti giusti che hanno scritto le canzoni giuste.
Ve l’ho detto, io ad Alberto lo chiamo maestro. E Soul to Soul è la lavagna su cui ci impartisce la lezione, un sunto della mitica storia della black music e dei suoi protagonisti, un enorme jam session che passa di città in città e racconta di amori tormentati, treni perduti, flusso naturale e mistico che attraversa l’aria mentre ce ne stiamo seduti a riflettere sulla banchina del porto e un pastore della chiesa di Memphis ci assolve cantando Let’s Stay Together.
Ecco, sto ancora divagando…
Tanto quello che dovevo dire l’ho già detto. Questo libro è un blues che ti porta via. Castelli è un bluesman che ti porta via. Gli artisti raccontati in questo libro ti portano via.
Leggetelo con gioia e moderazione, possibilmente mantenendo una certa eleganza nonostante i momenti difficili.
Federico ‘Sandman’ Traversa
Rispondi