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L’incredibile storia di Falco, il Mozart del pop che visse a 1000 all’ora

di Federico Traversa

La sua Der Kommissar è stata forse la prima canzone che ho canticchiato con talmente tanta insistenza da beccarmi una nota in classe. Il problema è che non riuscivo a smettere, quel “po po po” mi frullava a random nella testa e il tipo con gli occhiali scuri che cantava quel brano era troppo curioso e affascinante agli occhi del ragazzino di seconda elementare che ero.

Lui si chiamava Falco, ed effettivamente era parecchio diverso dagli altri. Intanto non era inglese o americano, come la maggior parte dei musicisti che affollavano le classifiche. Veniva dall’Austria, patria di grandi compositori classici ma non certo di popstar. Vestiva elegante, ispirandosi smaccatamente al Bowie della trilogia berlinese, con i capelli scuri impomatati, gli immancabili occhiali da sole e le barre in tedesco quando nessuno in Europa sapeva cosa fosse il rap.

Un tipo davvero singolare, che seppe catturarmi completamente, come sapevano fare i tipi più incredibili, quelli che quando passavano in tv non potevi fare a meno di guardare, come il Michael Jackson che ballava indemoniato in Thriller, i dreadlocks di Marley che ondeggiavano sul prato di San Siro o i Righeira e le loro giacché colorate che cantavano di andare alla spiaggia mentre scoppiava la bomba atomica.

Cristo se erano strani gli anni Ottanta.

Falco mi stregò già dal nome, figo come pochi. In realtà si chiamava Johann Hans Hölzel e si era ribattezzato Falco dopo essersi trasferito nella zona ovest di Berlino a vent’anni per cercare di sfondare con la musica. Nella città tedesca rimase stregato dalle gesta del celebre saltatore con gli sci Falko Weibflog, così sostituì la K con la C e decise che quello sarebbe stato il suo nome d’arte. Da quel giorno pretese di essere chiamato così da tutti, pure da sua madre, che si ostinava a chiamarlo ancora col nomignolo di Hansi, con suo grande disappunto.

Chiariamolo subito, questo ragazzone dai capelli scuri e lo sguardo penetrante non era un tipo semplice. Parliamo di un soggetto bizzarro, estroso e molto egocentrico, una vera “diva” che poteva fermarsi a teorizzare per ore sul modello di mocassini di coccodrillo visti indosso a un collega oppure parlare di sé in terza persona, ma parliamo anche di un musicista dotato, simpatico, generoso e divertente. Il Falco che ti trovavi davanti, probabilmente, dipendeva tanto da come si svegliava quanto da cosa aveva fatto la sera prima.

Musicalmente era molto preparato, nella casa in cui crebbe c’era un pianoforte e lui cominciò a suonarlo da piccolissimo. Per un periodo frequentò anche il conservatorio, anche se ben presto preferì il basso al piano, che imparò a suonare durante il servizio militare.

Nel 1977, a vent’anni, dopo qualche lavoretto saltuario, Hansi salutò la famiglia e si trasferì come detto a Berlino. Di lavorare manco a parlarne, lui accettava una sola possibilità nella vita: essere una star, come David Bowie, uno dei suoi più grandi idoli.

Nella città tedesca le sue notti erano lunghe e le giornate assai brevi.

All’epoca girava anche un’altra teoria sul perché avesse deciso di farsi chiamare Falco, sapete? E in questa storia si parlava di notti fumose, locali fatiscenti, drogaggi vari e un amico italiano distrutto dall’eroina che al termine dell’ennesima notte di devasto si girò verso il nostro, ancora in piedi e in discreta forma, e gli disse: “Tu te la caverai sempre, tu voli alto, sei come un falco“.

Rientrato a Vienna, Hansi – pardon, Falco – militò per un paio d’anni in uno strambo gruppo d’avanguardia, gli Hallucination Company, con cui ottenne un discreto seguito locale.

Secondo l’amico e compagno di band Wickerl Adam: “Falco era sesso, droga e rock n’roll in abiti Versace”.

Con un altra band, dall’attitudine più rock e politica, gli Drandiwaberl, in cui suonava il basso e all’occorrenza cantava, Falco incassò il suo primo successo come solista; compose infatti il brano Ganz Wien (Tutta Vienna), che era solito eseguire come riempitivo da solo ai live durante le pause del gruppo. La canzone parlava, con il consueto humour tipico di Falco, di come tutti nella capitale austriaca si facessero di coca e, manco a dirlo, venne boicottata dalle radio austriache. Eppure servì a fargli ottenere un contratto per tre dischi solisti con la Gig.

Ad affiancarlo, l’etichetta gli mise un produttore che aveva già macinato alcune hit. Si chiamava Robert Ponger e passò subito a Falco una strumentale strana, che occhieggiava alla dance ma anche a un suono più martellante, diverso, quasi black per non dire funk, una base sulla quale era difficile cantare. E infatti il cantautore austriaco Reinhold Bilgeri, per cui la base originariamente era stata pensata, la scartò schifato.

Falco all’inizio era dubbioso, per lui il singolo da registrare subito doveva essere Heiden von Heute, che gli era stata ispirata da Heroes dell’amato Bowie.

Tenne comunque la canzone con sé qualche giorno poi, prendendo spunto dal commissario Kottam, una celebre serie TV poliziesca austriaca in cui aveva recitato in un episodio, buttò giù il testo.

Se era impossibile cantare su quei ritmi lui decise, anticipando i tempi, di rapparci sopra, lasciando il cantato solo nel ritornello.

Der Kommissar venne terminata in pochi giorni diventando un successo clamoroso. In Austria, Francia, Germania, Italia, Spagna e via via in tutta Europa. Complice la spinta di Afrika Bambaata, che la suona nei club neri della Grande Mela, la canzone entrò in classifica persino in America, raggiungendo il settantaduesimo posto, una cosa inaudita per un brano cantato in tedesco. Era successo soltanto una volta, nel 1975 con Autobhan dei Kraftwerk.

Trascinato dal singolo delle meraviglie, anche l’album di debutto –Einzelhaftsvettò nelle chart, vendendo oltre sette milioni copie.

A quel punto Falco era ormai una star. Ma quel successo pretese dazio, un dazio pesante. Hansi, già egocentrico e incasinato di suo, si trovò spiazzato dall’improvvisa fama e la gestì nel peggiore dei modi possibili. Droghe, alcool, psicofarmaci, relazioni di una notte, follia.

Preda di deliri di onnipotenza, paranoia ma anche di un’integrità artistica che naturalmente lo portava ad alzare sempre l’asticella, realizzò il suo secondo attesissimo disco fregandosene di cercare un singolo potente come Der Kommissar. Inoltre scelse di continuare a cantare in tedesco nonostante tutti gli suggerissero di provare con l’inglese, in modo da sfondare anche in quel mercato, e lo fece assemblando una serie di brani dai testi complessi e ben poco accondiscendenti nei confronti delle radio. Se a questo aggiungiamo un atteggiamento distaccato e supponente durante le interviste, ecco servito il cocktail per il suicidio commerciale.

E difatti Junge Roemer, secondo disco d’inediti di Falco, si rivelò un flop clamoroso, che portò addirittura all’annullamento delle date del tour promozionale. Non solo per le scarse vendite ma per le pessime condizioni di Falco, perennemente fatto, ubriaco o entrambe le cose.

Distrutto dall’insuccesso, il musicista decise di staccare la spina, trascorrendo una lunga vacanza in Thailandia con gli amici più cari, nel tentativo di ritrovare un poco di equilibrio e pace interiore, a cui seguì un periodo lontano dalle scene.

Quando, dopo qualche anno, fu pronto a tornare, il manager Horst Bork gli presentò i fratelli Bolland, due produttori olandesi che avevano ottenuto un paio di clamorose hit e collaborato con Samanta Fox e Amy Stewart. Il mondo li avrebbe ricordati per In The Army Now che qualche anno dopo gli Status Quo portarono al successo.

L’incontrò partì male, perché la prima canzone che i due sottoposero a Falco fu un delirante pezzo sul suo più celebre concittadino: il compositore Wofang Amadeus Mozart.

Manco morto” rispose lui “è come se a voi chiedessero di realizzare una canzone sugli zoccoli e i mulini a vento perché siete olandesi” fu la piccata risposta di Falco.

Eppure l’idea che un moderno rivoluzionario del pop viennese raccontasse il geniale concittadino che rivoluzionò la musica classica non era niente male. In più il film biografico su Amadeus di Milos Forman, uscito solo un anno prima, con una regia moderna, quasi pop, aveva ottenuto un successo clamoroso, facendo incetta di premi e statuette.

E così alla fine Falco cedette e all’interno del disco con cui si stava giocando tutto – l’impareggiabile Falco 3, quello che contiene la scabrosa e bellissima Jeanny, Vienna Calling e Munich Girls, stramba rivisitazione di un pezzo dei Cars – accettò di inserire anche quello strano brano, che nel frattempo aveva mutato il suo titolo in Rock Me Amadeus, che la casa discografica scelse come primo singolo.

E ciao. Primo in classifica, ovunque, pure in America, con un remix del brano ironicamente chiamato Rock Me Amadeus – The Salieri Version, che superò Kiss di Prince. Ma ve lo ricordate il video? Con Falco vestito da Mozart e i motociclisti barbuti a creare quell’incredibile dicotomia con l’ambientazione settecentesca.

Falco 3 spopolò ovunque e Hansi finì addirittura ad aprire il festival nazionale di musica classica di Vienna davanti a oltre sessantamila persone. Impensabile per un cantante pop, ma non per Falco, che al momento era l’artista austriaco più venduto e apprezzato al mondo.

Un successo di gran lunga superiore a quello già fragoroso ottenuto ai tempi di Der Kommissar, di quelli in cui sali così tanto in alto che poi puoi solo scendere.

E infatti da lì in aventi la carriera di Falco non toccò più certe vette, nemmeno lontanamente, e anche la sua vita privata finì per incasinarsi sempre di più. Certe hit spesso segnano negativamente una carriera, proprio perché sono irripetibili.

I suoi successivi quattro dischi, registrati fra il 1986 e il 1992, vendettero bene solo nella sua Austria, dove ormai era una sorta di divinità, ma andarono male nelle altre parti del mondo e Falco ne soffrì tantissimo.

Tra un insuccesso, una pista di cocaina e una bottiglia di champagne, trovò conforto fra le braccia di Isabella Viktovic, biondissima ex miss Stiria che incontrò una sera in un bar di Graz, perdendo definitivamente la testa.

Era il mio tipo ideale: alta, bionda e con la tubercolosi” la descrisse Falco col suo immancabile sarcasmo.

Dalla Viktovic, che sposò nel 1988, ebbe l’amata figlia Katharina Bianca, da cui prese la forza per tentare di smetterla con alcool e droga. Ma durò poco. Ben presto la storia con Isabella naufragò malamente, i due si separarono e dopo qualche anno Falco scoprì, con grande tristezza, che la piccola, che ormai aveva sette anni, non era figlia sua.

Deluso, triste, indurito dalla vita, Falco lasciò l’Europa e si trasferì a Santo Domingo, cercando al caldo dei Caraibi un po’ di quella serenità perduta. Prima di andarsene, però, aprì un libretto di risparmi a nome della piccola Kathrina, da cui la ragazza avrebbe potuto attingere compiuti i diciotto anni.

Nonostante il paradiso in cui si era trasferito, Falco non la smise con la sua vita dissoluta, che si spense a San Felice de Puerto Plata, quando a un incrocio, mentre era alla guida della sua jeep Mitsubishi Pajero si scontrò contro un autobus, morendo sul colpo.

Nel suo sangue vennero trovate tracce di cocaina, alcol e marijuana.

Nel 1982, ai tempi del successo del commissario, aveva dichiarato a un giornalista di voler morire in un incidente d’auto, come James Dean. Una macabra quanto profetica dichiarazione.

Una morte su cui non mancarono le speculazioni, qualcuno arrivò persino a parlare di un possibile suicidio. Secondo alcuni testimoni, infatti, il suo fuoristrada venne travolto proprio mentre Hansi si stava immettendo a folle velocità in carreggiata senza guardare, quasi volesse farla finita.

Sia quel che sia, il 6 febbraio del 1998, ad appena quarantun anni, finisce la vita di Falco e inizia la sua leggenda. Riportato in Austria con un volo privato della Lauda Air – Nikki Lauda stesso era grande amico di Falco e aveva dato il suo nome a un aereo – l’autore di Rock Me Amadeus ebbe un funerale degno di un principe, con la bara trasportata dal gruppo di barbuti motociclisti che tredici anni prima erano apparsi nel celebre video.

Per non parlare della sua tomba, posta nel cimitero di Vienna, poco distante dagli illustri compositori del passato. Una tomba tutto fuorché sobria, con una statua di Falco che allarga le braccia sopra la lapide come fossero ali. Probabilmente lui l’avrebbe adorata. Anzi, la adora. Perché lui è ancora fra noi. Come recita mil titolo di uno struggente brano inedito rinvenuto dopo la sua scomparsa: Lo spirito non muore.

E ora apriamo le ali e voliamo.

Quella volta in cui ho visto giocare Maradona

di Federico Traversa

Campionato 1989-90, ho 14 anni e i miei genitori hanno finalmente ceduto: dopo tre anni che imploro, e visto che sono un ottimo studente, mi regalano l’abbonamento di Gradinata Nord, il cuore pulsante della tifoseria rossoblù. Un posto mitico e mitizzato da cui si alzano quei cori magici per il Genoa, la mia squadra del cuore, che dopo anni infiniti nella cadetteria è finalmente tornata in serie A sotto la guida dell’uomo di Lipari, il capo popolo Franco Scoglio.

È il Genoa del Presidente Spinelli, del trio uruguaiano composto dal macchinoso Perdomo, dal fantasista Ruben Paz e dal guizzante Pato Aguilera, meraviglioso centravanti che la Nord adotterà come uno dei suoi figli prediletti, soprattutto quando, qualche mese dopo, finirà in manette per un crimine tutto da dimostrare.

Ricordo tutto di quel giorno, persino com’ero vestito: bomber blu d’ordinanza, jeans con le toppe, Doc Martens con la punta di ferro e sciarpa del Genoa, quella con la scritta Sestri Rossoblù che mi aveva venduto l’anima pia di Miglio del Genoa Club Sestri. E poi l’incontro col Galle e Christian in quartiere, due calci al pallone e via di corsa in stazione a prendere il treno per Brignole insieme agli altri tifosi, di tutte le età, dai bambini accompagnati dai papà ai ragazzi più grandi con lo sguardo da duri che animavano la gradinata.

Allora gli stadi non erano esattamente un posto sicuro, o perlomeno così si diceva alla televisione, e i genitori avevano paura a mandarci da soli. Personalmente, ho frequentato il Ferraris per oltre vent’anni e non sono mai stato coinvolto in alcun scontro né ho mai avuto da ridire con qualcuno. Poi non so, parlo solo per la mia esperienza ma, da quello che ho capito, tendenzialmente i guai capitano a quelle teste di cactus che se li vanno a cercare.

Comunque quella domenica i miei erano più tranquilli del solito perché il Genoa giocava contro il Napoli e le due tifoserie erano legate da uno storico gemellaggio.

Per noi, invece, l’epicentro dell’estasi era rappresentato da un altro fattore: il fattore M. Infatti avremmo visto giocare Diego. Diego Maradona. M-A-R-A-D-O-N-A.

Istinto, visione, ritmo e poesia. Vederlo giocare al calcio era un’esperienza mistica. Come sentir cantare Marley, veder boxare Ali, come i colli lunghi di Modì, il gancio cielo di Kareem, i versi di Rimbaud, come le curve strette di Ayrton, i lob di McEnroe, le visioni di Fellini, il mare d’inverno che suona la sua scura canzone…

Amavamo tutti Maradona, era un tipo istintivo, passionale, incredibilmente umano. Veniva da un contesto di estrema povertà e quindi naturalmente empatizzava con i più deboli. Per noi, figli della classe operaia della periferia di Genova, era un esempio, esattamente come le era per la sua gente dei quartieri poveri di Buenos Aires, o per quel brodo di umanità, sangue e sudore che ribolle nei quartieri spagnoli e nei vari rioni di Napoli.

Fu una gran partita, ragazzi. Il Genoa, il nostro Genoa tutto cuore e corsa targato Mister Scoglio, giocò benissimo contro la squadra del campionissimo argentino. Passammo addirittura in vantaggio con un gran gol del biondo Davide Fontolan, poi loro persero il baffuto terzino brasiliano Alemao, che venne espulso per un fallaccio mi pare proprio su Pato e poi… e poi Caricola, il nostro centrale difensivo scuola Juve, commise uno stupido fallo di mano in area. Forse pensava di giocare ancora con gli impuniti bianconeri, chissà…

Rigore per il Napoli. Sotto la nord. A tirarlo lui, el diez.

Lo osservai con attenzione, mi sembrava impossibile fosse a una ventina di metri da me. Osservai la sua chioma riccioluta, il collo imponente, le gambe massicce e un po’ storte, il modo che aveva di saltellarle sul posto, che quasi sembrava danzasse.

Possibilità che Gregori, il nostro non impeccabile portiere, parasse il tiro? Poche, per non dire pochissime. E infatti, pur intuendo la traiettoria, la palla finì all’angolino.

Uno a uno e tutti a casa.

Noi felici perché un punto contro il Napoli era tanta roba, e loro pure, perché la partita si stava mettendo male.

Per me, Galle, Chri e tutti gli altri ragazzini presenti, però, quel pomeriggio era stato grandioso per un altro motivo: avevamo visto giocare Diego dal vivo, non in video come capitato con i vari Cruyff, Eusebio o Pelè. Avevamo visto con i nostri occhi il più grande e un giorno l’avremmo raccontato ai nostri figli.

L’anno dopo Maradona non giocò a Marassi contro il Genoa, era fuori per infortunio, e da lì a poco lasciò Napoli e l’Italia, quindi quella partita fu un “one shot” indimenticabile.

Eppure Diego sarebbe rimasto nella mia vita, tornando di tanto in tanto ad accendere la mia fantasia.

Quando con Tonino Carotone incontrai Emir Kusturica, per dire, il sommo regista slavo stava iniziando le riprese del suo film sul Pibe de Oro, e finimmo a parlare di calcio, di Genoa, Osasuna, Napoli e, ovviamente, El Diez.

Stessa cosa un anno dopo con Manu Chao, che a Diego aveva dedicato una bellissima canzone e che ci raccontò quanto era stato emozionante incontrarlo.

E poi è arrivata Daria, mia moglie, napoletana 100%, con cui ho vissuto e vivo la città dei Borboni in ogni suo anfratto. Napoli, la sua magia, la storia, la fantasia folle della sua gente. Napoli, dove il 30% dei maschi nati negli anni ottanta si chiamano Diego, dove ho trovato una seconda famiglia che mi ama come un figlio, un fratello, uno di loro. Napoli, la squadra per cui tifa Alessandro, il mio primo figlio. Ovviamente insieme al Genoa.

Anzi, appena torna da scuola voglio farlo sedere sulle mie ginocchia e raccontargli, con la voce impostata delle grandi occasioni, di quella volta in cui il suo vecchio padre ha visto giocare Diego Armando Maradona. Più o meno è questo ciò che mi ero ripromesso di fare trent’anni fa mentre, pizzetta post partita in una mano e Coca Cola fresca nell’altra, rincasavo dallo stadio con Galle e Chri, e il futuro mi stava aspettando tiepido come quel sole a forma di dieci che stava tramontando.

CARO DON TI SCRIVO: LETTERA A DON GALLO

di Federico Traversa

Caro Don

stasera ho proprio bisogno di scriverti perché… perché qui è un gran casino…

Te ne sei andato sette anni fa, in un momento in cui il mondo era già un gran bel compendio di problemini e problemoni, ma oggi, credimi, siamo su altri livelli. Un tale cinema…

Ti racconto tutto perché credo, anzi ne sono sicuro, che dove sei adesso certe cose non ti tocchino più di tanto e tu possa fartele scivolare addosso come in vita non sei mai stato capace di fare. E meno male, perché è stato grazie a quella rabbia, a quegli “sciuppon de futta” (come li chiamavi tu) se ti sei speso per combattere le ingiustizie e aiutare tutti quelli che ne hanno avuto bisogno.

Ma oggi, oggi che ti sei ormai da tempo sciolto in una nuvola di pace, spero di non buttarti troppo giù se ti dico, per cominciare, che in Italia la Lega è il primo partito e Salvini – sì quello mezzo “abelinato” con la felpa che cantava “Vesuvio lavali col fuoco” – fa comizi in tutto il sud applaudito come un messia.

E non è finita, Don. Al governo c’è il partito di Beppe Grillo, che però non si fa vedere più tanto in giro, insieme al Pd, che ora è guidato dal fratello dell’attore che interpreta il commissario Montalbano. E lo so, sembra una fiction Rai e invece…

Ma aspetta Gallo, questo è niente: per 4 anni il Presidente degli Stati Uniti è stato Donald Trump! Sì, il miliardario con la testa arancione, che ora però ha perso le elezioni anche se dice che non è vero.

Tornando alla nostra Genova, devi sapere che due anni fa è crollato il Ponte Morandi, una tragedia enorme che ha distrutto tante famiglie e coinvolto anche la tua Comunità San Benedetto, che sotto il ponte aveva la sua Fabbrica del Riciclo.

Ma siamo solo all’antipasto, Don! Belin c’é la pandemia. Sì. Ho detto PANDEMIA!

Un virus mortale è arrivato a inizio anno dalla Cina e, ad oggi, ha fatto più di un milione di morti. Ci siamo tutti dovuti chiudere in casa da marzo a maggio e ora di nuovo. Ho una fifa, Andrea… sai, sono papà di due bimbi piccoli adesso e ho due genitori anziani non autosufficienti, sento tutta la responsabilità del momento addosso. Ovviamente di mio fratello sai tutto, spero solo che ora che è lassù ogni tanto tu possa dargli un occhiata, è un ragazzo buono e incasinato, di quelli che piacciono a te. Sono certo lo farai.

Comunque ti stavo dicendo del virus, Covid 19 si chiama. Un vero disastro, qui in Liguria poi i guai sono stati doppi. Sai, da quattro anni ci governa uno strano personaggio che si chiama Giovanni Toti, un signore veramente, ehm, diciamo particolare. Da quando è iniziata la pandemia lui dice che qui da noi è tutto sotto controllo, di stare tranquilli, ma in tanti sostengono che le sue sono “musse” belle e buone, perché i Pronto Soccorso sono al collasso, i medici e gli infermieri fanno più ore dell’orologio e la gente soffre le pene dell’inferno per farsi un semplice tampone. Qualche settimana fa questo Toti ha persino pubblicato un post sugli anziani che ha fatto il giro del mondo. Una belinata sul fatto che non sono indispensabili alla sforzo economico del paese messa giù con una tale mancanza di empatia che lo hanno preso per il culo anche in Groenlandia. Vabbé magari non fino a lì ma hai capito. Ci abbiamo provato col tuo amico Ferruccio Sansa a toglierlo da lì, si era candidato persino il nostro Flavio Gaggero, ma lo sai che a noi liguri piace soffrire. Così ha vinto le elezioni e ora legittimamente governa. E lo so… lo so….

Vabbé dai, passiamo oltre che non ti voglio intristire troppo.

C’è anche qualche bella notizia.

In questo marasma quel meraviglioso cavallo matto del Gino Strada ha accettato di andare a dare una mano alla sanità calabrese! Se non altro finalmente avremo qualcuno a cui veramente frega qualcosa delle persone.

E poi ci sono gli amici, ciascuno perso a “rincorrere i suoi guai” come cantava Vasco. Franco sta bene, qualche anno fa ha portato il nostro libro persino a Cuba, non oso immaginare cosa abbia combinato nella terra del rum. Megu finalmente è dimagrito, Andrea ti giuro sembra un figurino, ed è sempre a lottare insieme a tutti gli altri di Sambe. Pensa, la Lilli é addirittura su facebook mentre Viviana è diventata una sindacalista che si sbatte per tutti. Claudio Agostoni di Radio Popolare non manca mai di ricordarti nei suoi programmi e come lui Manu Chao e Tonino Carotone nelle loro canzoni.

Ecco, vorrei chiudere questa lettera con bei ricordi anche se… ehm… Ma come faccio a non dirti certe cose? Come posso tacere il fatto che Renzi, all’urlo di “Enrico vai sereno” ha fatto un nuovo partito? E l’ha chiamato Italia Viva. Te lo giuro, Andrea, è questo il nome che ha scelto. E già che a te non era mai piaciuto…

Ma c’è di peggio, amico mio. Lo sai in questo momento di confusione, paura e incertezza chi sta facendo da paciere tra le varie forze politiche? Chi ne sta uscendo meglio di tutti, con parole spese con misura e complimenti persino a Fabio Fazio? Sì, Andrea, lui, sempre lui e ancora lui. SILVIO. Ma lo sai che ha pure sconfitto il Covid? Dicono che ora punti al Quirinale. Sento dall’improvvisa folata di vento che mi ha fatto cadere il vaso grosso in terrazzo che questa l’hai accusata anche da lassù…

Che altro dirti, Don? Vorrei consolarti con le imprese del nostro amato Genoa ma anche qui, meglio soprassedere.

Che poi, chissenefrega.

Non ci si vede, non ci si tocca, non ci si abbraccia, tutti in giro con la mascherina, la vita pare cosi sterile e fredda che alla fine quasi ci dimentichiamo per cosa stiamo combattendo.

Andrea mi manchi!

Ci manchi!

Continuo a scrivere, i miei lettori crescono, mi chiedono consigli perché credono che siccome ti sono stato vicino forse posso aiutarli a fare un po’ di chiarezza nelle loro vite. Mi sono messo persino a studiare seriamente il buddhismo e a meditare per capire più cose possibili e parlare con un minimo di senso. Eppure più la mia consapevolezza cresce più mi sento piccolo. Più leggo e capisco maggiore è la forza con cui le tue parole mi risuonano in testa: “Nessuno si libera da solo, ci si libera tutti insieme” .

Ciao Don, ti voglio tanto tanto bene. Ora metto su un pezzo di De André o di Manu, mi bevo un bicchiere di vino e poi chiuderò gli occhi.

Ho bisogno di abbracciare forte il tuo ricordo.

ROBERT JOHNSON

LA MALEDIZIONE DEL BLUES

Una volta, quando ancora ero un aspirante scrittore di nemmeno vent’anni, andai a vedere la presentazione di un romanzo di cui si diceva un gran bene. L’autore era stato per anni un senzatetto alcolizzato, solo la voglia di scrivere ancora un’altra poesia e l’aiuto di un’amica che si era innamorata dei suoi scritti lo aveva salvato dal commettere suicidio. Pensate che scrisse la prima bozza del libro sul retro degli scontrini usati che raccoglieva da terra mentre mendicava. La prosa di quello scrittore sui cinquant’anni, che per almeno trenta aveva fatto a botte con la vita, era potente e suggestiva. E quando uno degli spettatori gli chiese a chi si ispirasse per scrivere, se più ad Hemingway o a Bukowski, lui solo rispose: “Al blues, io mi ispiro al blues. C’è solo un linguaggio per un cuore che sanguina e un’anima in cerca di redenzione e quel linguaggio è il blues. E il blues può essere suonato, cantato ma anche dipinto oppure scritto”.

E poi, a sorpresa, si mise a intonare una litania struggente, solo voce e nocche che battevano sul tavolo a cui era appoggiato.

Fu un momento straordinario perché quel giorno capii veramente e definitivamente perché il blues è il BLUES.

Nelle settimane successive ascoltai e mi documentai, scoprendo che i vecchi bluesman del Mississippi erano più sinistri e maledetti delle moderne rockstar che allora tanto amavo. Piantagioni di cotone, donne disinibite, alcol e maledizioni. Wow. C’era da uscirne pazzi. Poi qualcuno mi parlò di Robert Johnson e della sua storia, e per la prima volta ebbi davvero paura.

Avete presente il detto: “Attento a cosa desideri perché potresti ottenerlo?

Una vicenda che faceva tremare il mio cuore adolescente quasi quanto il film Angel Heart che, tra l’altro, alla storia di Johnson credo debba parecchio, perlomeno in termini di immaginario e sceneggiatura.

E comunque…

Presumibilmente Robert Johnson nasce l’8 maggio 1911 a Hazlehurst, nel Mississippi, undicesimo figlio di Julia Major Doods. I dieci figli che lo avevano preceduto erano nati dal matrimonio della donna con Charles Doods, tutti ma non Robert. Lui era figlio illegittimo, nato dalla relazione fra Julia e Noah Johnson, un lavoratore della vicina piantagione.

Un’infanzia nomade e povera la sua, ai limiti della miseria, e un’adolescenza segnata dagli immancabili scontri col patrigno e da nessuna istruzione scolastica. E poi la musica, i primi rudimenti per suonare inizialmente l’armonica a bocca, e dopo la chitarra insegnategli dal fratello Charles Leroy, a far nascere una passione che lo attanaglia per non abbandonarlo mai più. Eppure, nonostante tanto si impegni, non è che Robert appaia un musicista così dotato; laggiù, nel Delta del Mississippi, ce ne sono tanti migliori di lui.

A 18 anni il nostro già si sposa ma la moglie sedicenne, Virginia Travis, muore nel dare alla luce loro figlio. Distrutto dal dolore, Johnson inizia a vagare lungo il Mississippi bevendo, fumando, andando a donne ed esorcizzando il proprio dolore in struggenti blues alla chitarra.

Nel 1931 il musicista tenta di ricostruirsi una vita normale e sposa Calletta Craft, una donna da poco conosciuta con cui si trasferisce nel villaggio di Copiah County. Ma la crescente passione per la musica e un tormento interiore, che si spegne solo quando imbraccia la chitarra in un bar e sgolandosi del buon whisky intona un blues, lo riporta sulla strada, e il matrimonio ben presto naufraga.

Fra caldo torrido, ventilatori accesi, chitarre pizzicate, ugole corrose dall’alcol e donne prosperose, Robert continua a suonare.

Fra uomini tormentati, vecchi giradischi, binari dissestati, crocevia per mille diversi inferni e il melmoso Mississippi che scorre lento, anche il Diavolo lo ascolta.

Narra la leggenda che a Robert, chitarrista non propriamente eccelso, una notte capiti qualcosa di davvero strano. Voci dell’epoca parlano di un incontro fra il giovane bluesman e un uomo sinistro interamente vestito di nero. Un incontro avvenuto allo scoccare della mezzanotte a un crocevia desolato, dove l’uomo in nero avrebbe concesso al giovane un ineguagliabile talento chitarristico in cambio della sua anima. D’altronde Mr Belzebù ha sempre amato il tormento e l’estasi, quindi come potrebbe non amare il blues?

E in questa ormai mitica leggenda probabilmente qualcosa di vero c’è. Johnson, infatti, nel suo girovagare, effettivamente incontra un tipo davvero inquietante e misterioso. Si tratta di un bluesman di nome Ike Zinneman. È lui a insegnargli, forse, quella tecnica chitarristica incredibile che diventerà il suo marchio di fabbrica. Quella che molti anni dopo, quando Brian Jones farà ascoltare a un giovane Keith Richards un’incisione di Johnson, convincerà Keith che a suonare quell’incredibile musica siano due chitarristi e non uno solo.

E questo Ike misterioso lo è sul serio, ma così tanto che non ci sarebbe da stupirsi se fosse davvero un emissario di Belzebù in persona: nessun dato anagrafico, nessuna fotografia, nessuna notizia certa. Di lui si sa solo una cosa: adora suonare nei cimiteri la notte, tra lapidi gelide come la morte. E quando lo fa, spesso si porta dietro Robert.

Sia quel che sia, il goffo Robert Johnson diventa un chitarrista incredibile. La sua stupefacente tecnica chitarristica è ancora oggi considerata una delle massime espressioni del Delta blues, senza dimenticare i suoi testi oscuri, che spesso parlano di spettri, demoni e alcune volte si riferiscono direttamente al suo presunto patto col Diavolo. Una leggenda che Johnson ama e probabilmente alimenta lui stesso. Una leggenda a cui contribuiscono i racconti dei vari musicisti che hanno a che fare con lui, tutti concordi nell’affermare che Robert fosse un chitarrista abbastanza mediocre all’inizio. Poi morì sua moglie, lui sparì per un anno e al suo ritorno era un autentico fenomeno.

Altri aneddoti raccontano che il bluesman fosse capace di riprodurre nota per nota qualsiasi melodia ascoltasse, per radio come in un locale affollato, e senza porvi la benché minima attenzione.

E se la sua vita è stata una lunga notte misteriosa e spettrale, la morte, avvenuta a soli 27 anni, è anche peggio.

È la sera del 13 agosto del 1938 e Johnson, insieme ai musicisti Sonny Boy Williamson II e David Honeyboy Edwards, si sta esibendo al Three Forks, un locale a 15 miglia da Greenwood nel quale da qualche settimana i tre suonano ogni sabato sera.

Robert, al solito, non ha perso tempo, seducendo la moglie del proprietario del locale. All’uomo non importa, basta che il leggendario bluesman, perché ormai il suo nome è sulla bocca di tutto il Mississippi e anche oltre, suoni come si deve e tenga un profilo basso che non alimenti le chiacchiere. Ma quella sera, complici l’alcol e il caldo torrido, Johnson e la signora iniziano a lasciarsi andare ad atteggiamenti davvero troppo espliciti. Quasi imbarazzanti, come racconterà un testimone.

Il gestore del locale non può tollerare un affronto così spudorato e, forse, decide di vendicarsi, vendicarsi alla maniera del Sud.

Durante una pausa del concerto a Robert viene passata una bottiglia da mezza pinta di whisky già stappata. Sonny e David lo mettono in guardia: non è prudente bere da una bottiglia senza tappo. In quegli anni non è raro che i musicisti vengano drogati e derubati dei propri strumenti e dell’incasso della serata, meglio non correre rischi. Ma Robert, già ubriaco, manda tutti al diavolo e se la sgola in fretta e furia.

Poco dopo inizia a sentirsi male, la brezza alcolica lascia spazio allo stordimento e alla confusione tipica dell’avvelenamento. Trasportato all’ospedale, muore dopo tre giorni d’intensa agonia, senza che qualche medico trovi il tempo di fornirgli le cure necessarie, o perlomeno affievolirne i tormenti.

Ci lascia 29 storiche registrazioni, effettuate tra il 23 novembre 1936 e il 20 giugno 1937, 29 registrazioni che costituiranno una base imprescindibile per intere generazioni di musicisti a venire, da Muddy Waters a Bob Dylan, passando per Rolling Stones, Cream, Allman Brothers, Eric Clapton, Jimi Hendrix, Led Zeppelin, e chiunque vi venga in mente fra le leggende del rock dalla sua nascita ad oggi.

E ci lascia pure quella symphaty for the devil, come dicevano gli Stones, che diventerà parte integrante dell’immaginario rock, fra musicisti compiaciuti, lotte dei benpensanti, miti, leggende, tragedie, commedie o semplici cliché.

Probabilmente il mondo del rock sarebbe stato ben altra cosa se quella notte, al crocevia per nessuna parte, un giovane nero poco dotato non avesse sacrificato la propria anima al demone della musica.

O almeno, è bello crederlo…

Tratto da Rock is Dead – Il libro Nero sui Misteri della Musica

(In libreria e in tutti gli store online)

Election Day: Chi è Joe Biden, l’anti-Trump sostenuto da Obama

di Federico Traversa

C’è un bellissimo video di una ventina di secondi che gira sui social in questi giorni: l’ex Presidente degli Stati Uniti d’America Barack Obama sta uscendo da una palestra con il suo staff quando qualcuno gli passa un pallone da basket. Senza pensarci troppo Obama prende il pallone, fa due palleggi e realizza un meraviglioso canestro da tre punti, tra il giubilo dei presenti. A quel punto, senza fermarsi e continuando a camminare di buon basso verso l’uscita, si abbassa la mascherina e urla: “That’s what I do” prima di lasciar esplodere una bella risata. Fine. La fotografia di un istante efficace come mille comizi, d’altronde Obama è sempre stato un maestro nell’arte di comunicare. E questo è solo uno dei mille modi con cui l’unico cavallo di razza – di quelli davvero capaci di spostare qualche milione di voti – del Partito Democratico sta cercando di tirare la volata al candidato Joe Biden, che nonostante il discreto vantaggio nei sondaggi, non sembra aver acceso completamente l’immaginario del popolo americano. Sarà l’età, l’eccessiva prudenza o la dialettica non troppo briosa, fatto sta che Joe sembra più il male minore dettato dalle contingenze che l’uomo in grado di cambiare le cose. Probabilmente, visto il disastro combinato in questi quattro anni dalla scriteriata amministrazione Trump, questo dovrebbe bastare per cambiare inquilino alla Casa Bianca, eppure fra i democratici la paura serpeggia, in particolare dopo quanto successo nella scorsa tornata elettorale, con l’inaspettata sconfitta della Clinton.

Non si respira grande entusiasmo per il vecchio Biden, insomma, e in molti sostengono che, se come sembra alla fine ce la farà, sarà solo grazie alla disastrosa gestione della pandemia di Trump e soci.

Eppure, al netto di un’età effettivamente un po’ troppo importante – sua come del candidato repubblicano (Biden va per i 78 anni, Trump ha superato la boa dei 74 lo scorso giugno) – il curriculum di Joe parla decisamente a suo favore; senza dimenticare come le tante disgrazie subite da quest’uomo sfortunato lascerebbero supporre una sensibilità e un’empatia verso il prossimo tipiche di chi affronta e supera certe terribili tragedie.

Originario di Scranton, in Pennsylvania, dopo essersi laureato in Giurisprudenza all’Università di Syracuse, Biden si è ben presto affermato come avvocato.

Ad appena trent’anni arriva il lutto che ne segnerà l’esistenza: la moglie e la figlia muoiono in un incidente stradale, con gli altri due figli della coppia che rimangono feriti. Joe li tirerà su da solo, risposandosi solo nel 1977 con Jill Tracy Jacobs, dalla quale avrà la figlia Ashley.

Politicamente la carriera del candidato democratico è stata lunga e costruita con certosina pazienza: eletto per la prima volta senatore per il Partito Democratico nel 1972, manterrà continuativamente l’incarico per ben 37 anni.

L’apice della sua carriera arriva durante l’amministrazione Obama, che nel 2009 lo nomina vicepresidente degli Stati Uniti, riconfermato anche dopo le elezioni del 2013.

Il 12 gennaio 2017, in uno degli ultimi atti della sua amministrazione, sempre Obama gli assegna la Medaglia Presidenziale della Libertà, la massima onorificenza del Paese, definendo Biden “un leone della storia americana e un esempio per le generazioni future“.

E fino a qui tutto bene, parafrasando il film “L’Odio”.

Ora veniamo alla voce scandali, che si sa, quando ti candidi a Presidente qualcosa viene fuori per forza.

Il nodo più spinoso per il buon vecchio Joe è rappresentato dallo scapestrato secondogenito Hunter. Tutto incomincia nel maggio 2019 quando il New York Times pubblica un articolo dove si accusa Joe di aver chiesto ai leader politici ucraini di rimuovere dall’incarico il procuratore generale Viktor Shokin, che in quel periodo sta indagando su presunte irregolarità compiute da Burisma Holdings, l’azienda ucraina di gas naturale nella quale opera Hunter, con un posto nel consiglio di amministrazione. Secondo il Times, Joe avrebbe minacciato di trattenere un miliardo di dollari di garanzie sui prestiti elargiti dagli Stati Uniti all’Ucraina. Stranamente poi, Shokin si dimette e storia finita.

Va detto che le accuse rivolte a Joe Biden non sono mai state confermate da prove certe e Hunter si è dimesso dal suo incarico presso la Burisma Holdings nell’aprile del 2019, e cioè prima che il padre si candidasse alle elezioni presidenziali.

Ma non è finita qui: nell’agosto del 2019, un agente della Cia presenta alla Camera dei deputati statunitense un documento in cui rivela i dettagli di una telefonata datata 25 luglio 2019 fatta da Trump al presidente ucraino Volodimir Zelenskij. In quell’occasione testa di arancia chiede più volte di aprire un’inchiesta per corruzione ai danni della Burisma Holdings, offrendo in cambio 391 milioni di dollari di aiuti militari all’Ucraina. La rivelazione costa a Trump l’avvio da parte della Camera della procedura di impeachment, con l’accusa di abuso di potere e ostruzione al Congresso. Assolto, l’uomo che ipotizzava di curare il Covid con iniezioni di disinfettante, continua da allora ad attaccare Biden per la “questione ucraina”.

Speculazioni a parte, il cinquantenne Hunter non è esattamente un esempio di figlio modello, con problemi di alcolismo, droga e relazioni extraconiugali. Per carità, niente di tanto diverso da almeno il 50% dell’occidentale medio, ma comunque non certo comportamenti di cui vantarsi. Ma non è lui il candidato presidente, è suo padre, sul cui comportamento, almeno fino ad ora, non si è trovato molto sui cui speculare.

Sono uscite voci di comportamenti inappropriati con quattro donne ma, al contrario della questione ucraina che tutt’ora rimane dibattuta, non è emersa alcuna testimonianza credibile né prove di alcun comportamento inadeguato da parte di Joe.

Lucy Flores, ex candidata democratica come vice governatrice del Nevada, ha accusato Biden di averla toccata in modo inappropriato durante un comizio elettorale nel 2014. Su The Cut la donna ha precisato che il comportamento di Joe non è stato violento né sessuale ma “vistosamente inappropriato e snervante“.

E cosa avrà mai fatto il vecchio Joe? Stando al racconto della donna, le avrebbe appoggiato le mani sulle spalle dandole un bacio dietro la testa. Una roba che qui da noi, abituati al Silvio style e ai bunga bunga fa quasi sghignazzare. Definirei queste esternazioni “il lato oscuro del #metoo” o, più criticamente, il modo con cui il potere sta cercando di ridicolizzare il legittimo e sacrosanto movimento femminista contro gli abusi sessuali.

E quindi?

Al netto dei colpi bassi, i violenti dibattiti televisivi e il legittimo sospetto che a certi livelli il più pulito abbia quantomeno la rogna, mi auguro che vinca Biden, e me lo auguro tanto per gli amici americani quanto per noi, che siamo direttamente collegati, volenti o nolenti, a quanto accade laggiù; l’attempato candidato democratico non sarà perfetto, forse è poco brillante, ma perlomeno rappresenta quei valori progressisti che guardano all’allargamento dell’assistenza sanitaria (se oggi molti americani sono vivi lo devono all’Obama Care, e questo nonostante sia assai migliorabile e ancora barbaro rispetto a molti paesi europei), alla tutela dell’ambiente, alla questione climatica, tutte priorità che dovrebbero essere alla base di un mondo più giusto, equo e libero. Certo, sarebbe stato meglio se al posto di Biden ci fosse stato Bernie Sanders, con la sua visione innovativa e rivoluzionaria, ma sarebbe stato davvero chiedere troppo. Un socialista alla Casa Bianca? Ma stiamo scherzando!!!

Quindi accontentiamoci di Biden e speriamo possa sconfiggere Trump, e che lo faccia nettamente nel nome dell’intelligenza. Non è più ammissibile vedere un simile idiota seduto sul trono della più grande super potenza del mondo. Un miliardario gretto, seppure astuto, che in 4 anni è stato capace di sdoganare definitivamente l’ignoranza, l’odio, la stupidità, le bugie eclatanti e il parlare a vanvera, trasformando tali deprecabili atteggiamenti in note di merito sociale.

Uno così ignorante da non conoscere l’antico motto dell’Ordine degli Assassini – Niente è vero tutto è permesso – ma comunque in grado di applicarlo a meraviglia.

Uno che ha fatto proseliti rafforzando e legittimando quell’ultra destra qualunquista, ignorante e becera, che qui da noi ha trovato collocazione e rappresentanti nei vari Salvini, gilet arancioni, negazionisti del Covid e tutto quell’assortimento di nuovi mostri che stanno imbruttendo il mondo, una cazzata alla volta. E ora iniziano a essere tante.

Per questo dobbiamo tutti sperare che quel canestro magistralmente messo a segno da Obama nel video virale di cui parlavo all’inizio, si realizzi anche il prossimo 3 novembre.

That’s what I Do.

Ecco, fallo anche stavolta, Barack!

BRUCE SPRINGSTEEN – LETTER TO YOU: Il disco perfetto per uscire dalla pandemia

di Federico Traversa

C’é una ballata di Bruce Springsteen, profonda e appena sussurrata, che non riesco più ad ascoltare. Si chiama Paradise e già dall’arpeggio iniziale mi porta alle lacrime. La trovate in The Rising, disco datato 2002. La ascoltai la prima volta solo l’anno scorso, quando riaccompagnai a casa mio fratello dopo una delle sue prime sedute di radioterapia, quando ancora eravamo convinti che ce l’avrebbe fatta.

La canzone parla, in maniera accennata, quasi sfocata, dei sentimenti di un estremista prossimo a compiere un atto terroristico. Non so perché mi abbia colpito cosi tanto, forse l’ho legata alla storia di Fabri, perché, alla fine, un tumore, altro non è che un bastardissimo atto terroristico.

Fatto sta che da allora ho iniziato a cercare di approfondire il discorso Springsteen che, tolto qualcosa degli anni 80, non è che mi avesse mai appassionato più di tanto. Lo trovavo poco vario, eccessivamente easy listening, un padrino simpatico ma un po’ incolore di quel rock annacquato da autogrill. Poi c’erano i live, d’accordo, e lì il boss andava lasciato stare, un indiscutibile cavallo di razza, e dei più puri, ma a livello compositivo proprio non riusciva a entrarmi dentro. Per questo gli avevo sempre preferito gente meno pubblicizzata ma ai miei occhi più sanguigna tipo John Mellencamp o, che so, Tom Petty.

Complice Paradise, ho quindi riascoltato quasi tutta la discografia di Springsteen e, mi perdonino i suoi fan, ho solo trovato conferma di quello che già sostenevo: non molto innovativi ma certamente coinvolgenti i dischi degli anni Settanta e Ottanta, discreti ma eccessivamente patinati quelli dei Novanta e abbastanza fuori fuoco i lavori degli ultimi due decenni. Certo, ci sono tanti passaggi piuttosto ispirati anche nella discografia del Boss di questi ultimi anni, proprio Paradise ne è un esempio, ma mediamente c’è ben poco per cui spellarsi le mani.

Perlomeno fino all’ultimo Letter to You, uscito qualche giorno fa, il disco che cambia tutto. Un album di una bellezza, una potenza e una freschezza di suono davvero inaspettati per un signore che ha passato la boa delle settantuno primavere. Dodici canzoni commoventi e calde, come un fuoco che arde in mezzo alla neve, circondato da fantasmi che ballano in cerca della magia degli anni perduti, trovandola immutata in fondo alla strada.

Suonato in presa diretta dai survival della E Street Band e realizzato in soli cinque giorni, Springsteen l’ha definito “l’esperienza di registrazione più bella e intensa della mia vita”. E si sente.

Come ben riassume Gabriele Benzing su Onda Rock:Le chitarre spigolose e taglienti, la batteria solenne, il lirismo di pianoforte e organo, persino l’inconfondibile marchio di fabbrica del sax (con Jake Clemons a fare da controfigura del compianto zio): tutto è esattamente dove lo avevamo lasciato quarant’anni fa, forgiato da un instancabile affiatamento sulle scene. E funziona proprio per questo, perché è quello che Springsteen e la sua gang sanno fare meglio”.

O come mi ricordava stamattina il mio amico Robi Galle al telefono, springsteeniano della prima ora, finalmente non più deluso: “È tornato il Boss! Era da Tunnel of Love che l’aspettavo!”.

Il suono di Letter To You arriva compatto, muscolare eppure meno scontato del solito. Canzoni come Burnin Train e Janey Needs a Shooter (out-take che arriva addirittura dagli anni settanta insieme alle memorabili If I Was a Priest e Song for Orphans) ci consegnano un Bruce tirato, a tratti persino pesante; Last Man Standin e la title-track sembrano preghiere laiche alla musica e agli anni che passano, recitate da chi è ancora in piedi nonostante i tanti colpi che, volente o nolente, ti rifila anno dopo anno la vita.

La canzone d’apertura – Open You’re here – è invece una struggente ballata aperta da una arpeggio morbido che si sposa a un testo poetico e sommesso. Il let motiv del disco non è più il “nato per correre” degli esordi ma il resistere all’ossidazione del tempo, restando in piedi anche quando arriva l’inverno, un po’ come l’immagine che lo ritrae in copertina mentre, testa alta e schiena dritta, attraversa una New York ammantata di neve.

Un album di ricordi e legami indissolubili, come dimostra Ghosts, il secondo singolo, frizzante e tirato omaggio tanto alla vita sul palco quanto agli amici persi lungo il cammino. Amici che si rincontreranno, prima o poi, nella House of A Thousand guitars, pregheranno insieme (The Power of prayer) o magari verranno a trovarci in sogno come nella conclusiva I’ll See you in my dreams, che chiude l’album, con aperture ariose e accordi larghi, come se la E-Street Band stesse spalancando finalmente la soffitta di anni polverosi per fare entrare aria, sole e tanta luce.

E così si chiude Letter to You, forse uno dei lavori più sinceri e ispirati di Bruce Springsteen, un lavoro in cui, al netto del blasone e degli stilemi, a vincere sono onestà e sentimenti di un uomo complesso ma non complicato, che sta attraversando, come tutti noi, questo mare in tempesta che è la vita con rabbia, amore e tanta speranza.

Per questo, e molte altre ragioni, Letter to you é forse il disco perfetto per uscire da questa pandemia, da cantare tutti insieme abbracciati sotto il palco quando questo maledetto momento sarà finito.

Il Sottile piacere della malinconia

(ovvero: essere malinconici non è reato, playlist per quei momenti lì)

di Federico Traversa

La società attuale non contempla la tristezza, l’imperfezione e tantomeno la malinconia. Devi essere sempre felice, sorridente, sano, bello, ben conscio di dove stai andando e perché. L’ aspetto vincente tout court dell’esistere è ormai talmente importante da aver fatto nascere un florido business per aiutarti a raggiungere l’obbiettivo. Mental coach, motivatori, maestri di yoga, pagine social sul miglioramento personale, guru del pensiero positivo, eccetera, eccetera, eccetera.

L’importante è non apparire insicuri, tristi e malinconici. L’importante è nascondere le proprie debolezze davanti al mondo.

Ho sempre odiato questo modo di vedere la vita, e per svariate ragioni. Sono sempre stato un tipo insicuro, spaventato, spesso a pochi passi dal cadere di sotto, vittima se non proprio di una profonda tristezza certamente di un’avvolgente malinconia. Così avvolgente da diventare quasi una sorta di coperta calda a cui, dopo tanti anni, mi sono affezionato. Già perché la malinconia non è una cosa brutta. Anzi. Ogni tanto vivere come dentro un video triste che va avanti al rallentatore per ore e ore non è niente male. Soprattutto se hai la musica a farti compagnia.

Tutti noi, durante un momento difficile, ci siamo ritrovati avvolti nel nostro maglione sformato – quello che indossiamo in quelle giornate un po’ così – ad osservare la pioggia che cadeva dalla finestra mentre una playlist a tema invadeva la stanza con i suoi suoni perfetti per la situazione. Proprio come se ogni canzone ci scavasse dentro. Adoravo farlo a vent’anni e adoro farlo anche oggi. Certo, adesso che sono papà posso cullarmi molto meno nell’apatia esistenziale ma ogni tanto, se capita, mi concedo anche io di essere malinconico. Vedo il ‘momento nostalgia’ non come un nemico da abbattere ma uno stop necessario per rallentare un po’, ripassare le cose veramente importanti e poi ripartire. Anche perché con la tristezza c’è poco da fare, devi solo aspettare che passi. Come un temporale. Quando piove non andiamo ad agitare i pugni contro le nuvole urlando al cielo di smetterla di frignare, perché sappiamo non servirebbe a nulla.

Ci sediamo comodamente al riparo, osserviamo le nuvole e aspettiamo che spiova, cosa che regolarmente accadde.

Come insegnano i grandi saggi orientali – non quelli in tuta da ginnastica che fanno milioni di views su youtube e poi finiscono sui giornali per aver molestato qualche ragazzino, parlo dei saggi veri – arriva la tristezza, poi la gioia, ancora e ancora. Tutto viene e tutto va. È solo un mood mentale, che prima e poi passerà esattamente come prima o poi smette sempre di piovere. Tolta quella tristezza che proviene da effettivi traumi, che so una malattia, un lutto, o l’amore della nostra vita che ci lascia per sempre, il 90% della nostra infelicità nasce dentro di noi e dipende da quante nuvole ci portiamo dentro in quel momento. Infatti gli stessi accadimenti vengono vissuti in maniera diversa a seconda del nostro umore. Se ci tamponano in macchina una mattina in cui siamo incazzati, in ritardo e siamo stati appena multati dai vigili ci incazziamo come dei puma, ma se invece ne veniamo da casa di quella rocker tatuatissima che è la nostra vicina, la quale ci ha accolto in perizoma prima di sedurci sulle note di White and Bleed degli Slipknot, e in più abbiamo vinto un biglietto omaggio per il concerto dei Rolling Stones, probabilmente di quel colpetto sul parafango non ce ne fregherà niente. Congederemo il tamponatore del mattino con una pacca sulla spalla, semplicemente dicendogli: “Tranquillo, fratello, son cose che succedono, vai pure. E buona giornata”.

Capito l’antifona? La macchina umana è tanto semplice quanto complessa.

Tornando alla malinconia, quindi, il mio consiglio è di godersela tutta. Negli anni ho addirittura compilato con certosina pazienza una playlist per l’occasione. Fidatevi, la mia ‘malincolist’ non tradisce mai, nata per essere sparata in cuffia a random quanto si è giù. È molto varia e lunghissima. Ripeto si tratta di un lavoro di anni. Alcune canzoni le ho inserite per il mood, altre perché hanno significato qualcosa di particolare per il sottoscritto. Non necessariamente sono tristi, magari semplicemente meditative, profonde o solo capaci di cristallizzare la mia malinconia in qualcosa di bello.

Gli artisti, come anticipato, sono molto eterogenei.

C’è dentro She Lost Control dei Joy Division, Black dei Pearl Jam, Down in a Hole degli Alice in Chains, Talk Show Host dei Radiohead, Soul to Squeeze di Red Hot Chili Peppers, Blessed to Be a Witness di Ben Harper, Entre dos Acqua di Paco de Lucia, Mama Wolf di Devandra Banhart, Ghost Song dei Doors, Spirit Bird di Xavier Rudd, Everybody Here Wants you di Jeff Buckley, Hurt cantata da Jonnhy Cash. E ancora: My Vida di Manu Chao, Rooms della Jim Carroll Band, Merry go round dei Motley Crue, Love you like I Do degli Him, Out of Time Man di Mick Harvey, Come as You’re dei Nirvana, Patience di Nas e Damian Marley, Back to Black di Amy Winehouse.

Niente male, vero?

Ne ho anche una con solo pezzi in italiano. Si va da Vivere di Vasco a Ciao Amore Ciao di Tenco passando per La Ballata dell’amore Cieco (De Andrè), Anima Latina (Battisti), Com’è Profondo il Mare (Dalla), Senza Vento (Timoria), Quello che Non c’è (Afterhous), La Cura (Battiato), Viba (Verdena), Zeta Reticoli (Maganoidi), Amore Disperato (Nada), Non Escludo il Ritorno (Califano) Aspettando il Sole (Neffa), Messico e Nuvole (fatta dai Bluebeaters), Aida (Rino Gaetano), Signora Luna (Capossela), Mare Mare (Carboni) e ovviamente Mary dei Gemelli Diversi. No, dai quest’ultima non è vera.

Anzi fate, una cosa, mandatemi via mail anche la vostra playlist per godere dei sad moments, così cambio un po’. L’aspetto.

In conclusione, amici, non c’è niente di male a essere giù di morale, a sentirsi degli impiastri o a non apparire fighi come ci vorrebbero gli altri. Essere forti non significa non andare mai al tappeto ma avere la capacità di accettare i brutti momenti, affrontarli e rialzarsi. E poi ricordate, le sensazioni che ci attraversano, belle o brutte che siano, sono come nuvole che attraversano il cielo. È sicuro che arriveranno come è sicuro che se ne andranno. Ma noi siamo il cielo, che sotto quelle nuvole, resta sempre azzurro.

Quindi, citando il Grande Lebowski, prendiamola un po’ come viene e, mentre lo facciamo, possibilmente ascoltiamo qualche bella canzone.

Quella volta che Manu Chao attraversò la terra dei narcos suonando gratis per i poveri del far west del mondo

di Federico Traversa

In un mondo della musica dove sempre più spesso si è costretti a scendere a compromessi in nome del mantenimento del proprio seguito, ogni tanto sopravvive qualche artista davvero libero, con una mente aperta, degli ideali autentici, una coscienza limpida, e che delle regole non scritte dello showbiz se ne frega bellamente. E se quell’artista è vero, sincero e ispirato, alla fine è probabile che l’abbia vinta lui. Lo so, lo so, quelli così si contano sulle dita di una mano, eppure ci sono. Esistono e se desideri amarli, prima o poi la loro musica ti troverà.

Uno di questi è sicuramente Manu Chao, e lo è oltre ogni ragionevole dubbio. Parliamo di un tipo incredibile, incredibile sul serio. Nato in Francia da genitori spagnoli, nelle sue vene scorre sangue basco e galiziano. Con la Mano Negra, il gruppo con cui ha ottenuto un importante successo internazionale, mescolava influenze di ogni tipo, spaziando fra caleidoscopi di culture diverse.

Successivamente ha intrapreso una carriera solista, libera e splendente, che per un periodo lo ha fatto assurgere a paladino del movimento no global e delle istanze di tutti i popoli terzomondisti. Quando si è reso conto che qualcuno ne stava strumentalizzando intenti e visione, ha deciso semplicemente di sparire, non parlare più molto con la stampa, registrare sempre meno dischi e viaggiare per il mondo, alla ricerca di progetti che potessero di nuovo accendergli l’anima. Tipo La Colifata. Come dimenticare quel disco? Un album che Manu ha registrato con i pazienti di un centro di malattie mentali di Buenos Aires per finanziare la struttura e l’omonima radio gestita dai pazienti.

Mr Chao è uno che non mai fermo, perennemente in viaggio, gli occhi spalancati nel tentativo di capire cosa succede in giro.

A Barcellona è facile incontrarlo al bar Mariachi, un piccolo locale del Barrio Chino dove fanno un idromele buonissimo. O al Bahia, in quella che i barcellonesi chiamano “la Plaza dei Tripi” a bere Horuco in compagnia di una cricca multietnica di artisti, perditempo, geni e sregolati. Ci ho fatto qualche serata anche io col mio amico Tonino Carotone e se te le ricordi vuol dire che non c’eri.

Manu è un tipo difficile da spiegare, uno che non afferri facilmente, tant’è che ha volte viene frainteso.

Don Gallo lo adorava. Durante il G8 mentre Manu era a Genova per un concerto volle incontrare diverse realtà locali per cercare di far qualcosa di attivo durante la manifestazione. Il Don propose di dare vita a punti di ristoro in giro per la città che dessero da mangiare e da bere ai manifestanti. Suggerì di chiamarlo Bar Clandestino. A Manu brillarono gli occhi e disse al Gallo di procedere, che l’avrebbe aiutato. Andrea e la Comunità di San Benedetto al Porto si diedero da fare e nei tre giorni del G8 non so quante tonnellate di pane e litri d’acqua andarono via.

Due giorni dopo un tipo dalla faccia stralunata passò dalla Comunità, chiedendo di incontrare Don Gallo.

Mi manda Manu” disse, prima di mettere nelle mani del Don un assegno di quasi trenta milioni delle vecchie lire.

Un’altra volta Manu passò da Genova e venne alla “Lanterna”, il ristorante della Comunità San Benedetto, un posto rustico dove ti può capitare di mangiare gomito a gomito tanto con Vasco Rossi che con un tossico che ha appena intrapreso il suo lungo percorso di recupero. Solo che di domenica il locale è chiuso. Allora cosa fece, Manu? Lasciò a Don Gallo una rosa bellissima e un biglietto. Quella rosa gliel’avevano donata i detenuti del Carcere di Volterra per cui aveva fatto un concerto gratuito, senza clamore, senza allertare i media. In silenzio.

È sempre stata questa la sintesi della sua missione: dare voce a chi non ce l’ha.

Oppure mi viene in mente quando venne in Italia a presentare Clandestino e, mentre tutti lo aspettavano al Leonacavalo, se ne andò con la sua banda a suonare in Piazza Duomo davanti a venti extracomunitari.

Ce ne sarebbero mille di aneddoti su Manu, tanti me li ha raccontati Tonino Carotone, che con il clandestino ha un rapporto fraterno. Tanti altri Pacorro, un tipo incredibile di quasi sessant’anni che vive a Barcellona e ha fatto il road manager persino per Joe Strummer.

Ma quello che vi ho raccontato fino ad adesso, andando un po’ a braccio e ripescando da alcune delle notti più emozionanti della mia vita, sono poco più che dettagli, bazzecole.

È stato nel 1993, quando ancora militava nella Mano Negra ed era all’apice del successo con la vulcanica band meticcia da lui fondata, che realizzò qualcosa di incredibile, una storia senza precedenti nel mondo del rock. E lo dico senza timore di essere smentito.

Forse per espiare a uno strano senso di colpa per avercela fatta con la musica, certamente per rompere la monotonia dell’eterna abitudine studio-album-promozione-tour, sicuramente per un senso di genetica empatia verso la gente che possiede poco o nulla, fatto sta che Manu si gettò in un progetto apparentemente da manicomio.

In Colombia, allora, esistono solo 3200 km di binari ferroviari, e la metà risulta inutilizzata; Manu ha un rapporto profondo con il popolo sudamericano, e con quel paese in particolare. Così una bizzarra idea inizia a prendere forma: ridare vita all’antica linea coloniale che trasportava banane e caffè, e portare uno spettacolo itinerante di musica, numeri circensi e allegria in tanti piccoli paesi controllati dallo stato corrotto, dalla guerriglia o dal cartello dei narcos. Il tutto ovviamente gratis, con le spese a carico degli sponsor che accetteranno di sostenerli, e della Mano Negra.

Capito la follia? Considerate che stiamo parlando di un gruppo all’epoca fra i più famosi d’Europa, che con il precedente album, King Of Bongo, ha inanellato critiche entusiaste e vendite insospettabili.

Il piano inizia a prendere vita, Manu trascorre quasi un anno facendo spola fra Parigi e Bogotà per mettere a punto la spedizione. La ferrovia colombiana mette a disposizione della band un deposito per lavorare alla ristrutturazione di un treno dismesso, oltre a chi, fra il personale ferroviario, se la sente di offrire la propria mano d’opera.

Lentamente, fra intoppi burocratici, ritardi e problemi vari, il progetto si concretizza. L’organizzazione richiede un anno intero.

Solo per mettere in ordine i vagoni del treno che trasporterà musicisti, saltimbanchi, trapezisti, mangiafuoco, burattinai e tutti gli artisti che hanno scelto di prendere parte a quella stramba avventura, ci vogliono otto mesi di lavoro. Lavoro duro. Sì perché si tratta di una vera e propria casa viaggiante su rotaia, con tanto di vagone del fuoco che entra in fiamme nelle stazioni, vagone delle comunicazioni per rimanere in contatto radiofonico con Francia e Colombia, vagone del ghiaccio – dove una macchina da vita a un enorme forma di ghiaccio che viene sciolta dalla lingua di fuoco di un’iguana meccanica costruita con materiali di recupero per la gioia dei bambini. Senza scordare il vagone dei tatuaggi e quello adibito a palco per esibirsi lungo la marcia.

In tutto le carrozze sono 21 e, fra tecnici, operai e artisti, vi viaggiano circa 100 persone di varie nazionalità

Il treno, ribattezzato l’expreso del hielo, in onore dello scrittore Gabriel Garcia Marquez, procederà a una media di 20 chilometri all’ora per circa duemila chilometri.

Con la spedizione si imbarca anche Ramon Chao – scrittore, giornalista, autore di libri e responsabile delle trasmissione in spagnolo di Radio France, nonché padre di Manu Chao – che alla fine del lungo tour documenterà l’impresa nel libro Un train de glace et de feu.

Il giro incomincia, ovunque la carovana è accolta da gioia ed entusiasmo, anche se i problemi non mancano: incidenti, mancati finanziamenti, perquisizioni della guerriglia delle FARC, dell’esercito, dei gruppi para-militari foraggiati dai cartelli della droga, il tutto senza sapere se il giorno dopo ci sarà un altro concerto o qualche situazione d’emergenza costringerà tutti a tornare a casa.

La cosa più difficile da spiegare alle varie istituzioni, legali e non, che a turno presiedono la parte interna della Colombia è il perché un gruppo rock francese di buona fama si sia imbarcato in tutto questo, senza guadagnare un dollaro.

Non mancano momenti di tensione, controlli al limite della legalità e paura. D’altronde si sta viaggiando con un treno scassato nella selvaggia Colombia, un far west fuori tempo massimo, fra i territori allora più pericolosi del mondo.

Il 18 novembre del 1993 la carovana arriva a Santa Marta. La Mano è stanca, sono in Colombia da quasi un mese e lo stress inizia a farsi sentire. Jo, il bassista, si è rotto un piede e i promessi sponsor per continuare il tour stanno facendo un passo indietro. Senza considerare che i controlli dei militari a ogni tappa si fanno più insistenti e fastidiosi.

A peggiorare le cose, durante la seconda data a Santa Marta, ci si mette il governatore della città, non esattamente l’idolo dei cittadini. L’uomo pretende di salire sul palco per un breve saluto al pubblico e Manu e i suoi, per evitare ulteriori problemi, sono costretti ad acconsentire. Ma scendere a patti con il potere non è nel nda di Manu Chao e scatta la contromossa. Appena la band inizia a suonare il musicista franco-spagnolo intona el pueblo unido jamas sera vencido, frase simbolo della ribellione in tutto il Sud-America, dal Cile all’Argentina senza dimenticare, ovviamente, la Colombia.

Una follia in un paese in guerra, una follia non senza conseguenze: il giorno dopo quattro membri della Mano Negra lasciano la Colombia per fare ritorno in Francia. Troppo pericoloso restare lì ancora. Quello di Santa Marta sarà l’ultimo concerto della band francese.

Manu invece resta, nonostante la mancanza di sponsor, nonostante le minacce, la paura e i disagi continui. È troppo bello vedere vecchi e bambini poveri che danzano scoprendo sorrisi sdentati al suono delle sue canzoni. E si andrà avanti ancora per settimane finché, ormai a corto di fondi e con il treno ormai a pezzi, la carovana terminerà il suo viaggio.

Manu non ha guadagnato niente da quel viaggio e la sua band è ormai prossima allo scioglimento, che avverrà dopo qualche mese. Eppure quell’esperienza, quei visi segnati dalla vita e dalla povertà, le tante perle di saggezza e verità raccolte lungo il cammino, germoglieranno nella sua mente e faranno un giardino. Un giardino composto di suoni, racconti, abbozzi di idee, frammenti di storie uniche e irripetibili che confluiranno in uno dei dischi più importanti e significativi degli anni novanta: Clandestino.

Molti anni dopo una ragazza di Barcellona partirà per la Colombia, ripercorrendo nel suo viaggio tutto l’itinerario che tanti anni prima percorse la carovana. Con se porterà diverse copie del libro di Ramon Chao da regalare ai tanti campesinos che avevano assistito ai concerti della Mano Negra. Con sorpresa prenderà atto che tutti ricordavano con gioia quell’esperienza, accettando il libro con rispetto e gratitudine. D’altronde quella era la loro storia, la storia di un treno magico che per un po’ di tempo portò follia e libertà d’espressione nel far west del mondo.