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UNA VITA IN CUI TI RICONOSCI

di Federico Traversa

Lavoro perché lavorare mi rende libero, indipendente, e in pace con la mia coscienza. Non lavoro per arricchirmi, tenere ritmi da infarto e passare la vita a rincorrere numeri e algoritmi che qualche economista ossessivo compulsivo ha partorito per sopravvivere alla propria ansia aggiungendo altra ansia. Lo ripeto: lavoro per essere libero. Libero di trascorrere del tempo con le persone che ho scelto, e anche con quelle che non ho scelto. Libero di vedere il sole caldo duettare con la magia del mare, che quando i raggi si stendono sul filo dell’acqua e lasciano guizzare la luce fra le increspature delle onde, c’è da perdere il respiro. Lavoro anche per i bisogni, certo, ma cerco di tenerli a un regime minimo: un tetto dignitoso sopra la testa, le provviste necessarie e la possibilità di spostarmi. Delle eccessive comodità m’importa poco. Dei vestiti ancora meno. In quanto agli oggetti di valore, ne conto tre. Un piccolo Buddha di terracotta con la testa incollata perché i miei figli l’hanno decapitato – prezzo di listino 9,90 – e una campana tibetana che mi regalò mia moglie qualche anno fa a natale. Di quest’ultima il prezzo non lo conosco, ma non credo costi più di una ventina d’euro. Il mio scooter vecchio di 10 anni l’ho demolito, che con due bimbi piccoli lo usavo tre volte all’anno. Ho preso una macchina di seconda mano, abbastanza grossa ma distrutta. Come tutti possiedo un telefono e un portatile con cui lavoro, il primo di seconda mano, il secondo nuovo. Dentro c’è tutto il mio mondo, che vuol dire musica e libri. Finito. Ciò non significa che non abbia aspirazioni a migliorare le mie condizioni di vita. La sola differenza fra il sottoscritto e quella parte d’umanità descritta da Studio Aperto è che le mie aspirazioni sono legate alla qualità della vita stessa e non all’accumulo di oggetti deperibili come un nuovo cellulare iper tecnologico, la visibilità sociale o un paio di tette modello “guarda come combatto la forza di gravità”. Sia chiaro, non giudico né mi permetto di criticare chi sublima la propria insoddisfazione nell’accumulo di oggetti, attenzioni o trasformazioni fisiche capaci di restituirgli quella sicurezza di cui hanno bisogno per abitare la vita.

Dico solo che non fa per me. Credo che siamo tutti al mondo per conoscere e conoscerci, e per farlo serve essere il più possibile leggeri e liberi, soprattutto di testa. Liberi, ad esempio, di disporre il più possibile del proprio tempo per osservare il mondo e le sue mutazioni, per camminare lentamente lungo strade che non si conoscono mai abbastanza, accordando il proprio respiro al rumore del vento.

Anche perché la vita è insicura, breve e pericolosa. Per quanto giovane e in salute tu sia, rilassati, perché un giorno morirai. Ogni minuto che passa ci avvicina tutti alla tomba. E questo che ci piaccia oppure no. Siamo un lampo brevissimo in un lungo spazio scuro. Brrr, che brutta immagine. Diamone una un po’ più simpatica. Siamo come quei pop-up che appaiono un secondo o due nel nostro computer, e quando ci accorgiamo della loro presenza se ne sono già andati. Alcuni sono belli, luminosi e li notiamo per la loro capacità di brillare. Di altri invece non ci accorgiamo per niente e svaniscono senza che nessuno se ne accorga. Eppure entrambi hanno una cosa in comune: la loro presenza nel monitor del nostro pc è brevissima. Esattamente come la vita di ogni uomo o donna su questa terra.

Possiamo preoccuparci, spaventarci, intristirci per questa ineluttabile condizione ma questo non cambierà le cose. Il tempo passerà e prima o poi moriremo. La cosa strana è che la maggior parte di noi vive, agisce e si preoccupa come dovesse vivere per sempre. Se accettassimo la nostra mortalità, probabilmente della nostra vita ne faremmo un uso migliore. Certamente ci incazzeremo meno. Potremmo arrivare persino a ridere della nostra condizione ‘mortale’ e della comicità dell’universo, prendendo in giro tutti quei matti che si picchiano per possedere questo o quello, dimenticando che siamo arrivati in questo mondo senza niente e senza niente da questo mondo ce ne andremo. E svuotando il più possibile la mente dalla pesantezza dei nostri pensieri, un giorno potremmo addirittura arrivare e giocare con la vita, conoscendo più cose possibili del mondo quanto di noi stessi. Sia chiaro: anche in questo secondo caso il tempo passerà ugualmente. Invecchieremo, ci ammaleremo e moriremo, ma magari non oggi. E allora scopriremo che ci sono anche giorni colmi di gioia, profondità e bellezza, e che quando un giorno smetteremo di essere vivi in questa forma mortale torneremo a ricongiungerci con l’energia che soggiace a tutta l’esistenza, sperimentando forme diverse e più sottili di esistenza. Si viene e si va, come canta quel terribile cantautore emiliano che incomprensibilmente in tanti amate. E si ritorna, aggiungerei. Ma non perdiamoci con inutili elucubrazioni filosofiche. Quello che conta è che siamo qui adesso, chiamati a vivere una vita in cui ci riconosciamo completamente. Che poi è l’unica formula infallibile per non avvelenarsela. Senza paura, nessuna paura. Siamo chiamati a vivere tutte le dimensioni possibili che la vita ci serve giorno dopo giorno, belle o brutte che siano. Molte persone vanno dal proprio confidente spirituale – che sia un prete, un monaco, un mullah o un guru – e spesso chiedono: “Padre la prego mi benedica, faccia che non mi accada nulla”. Concettualmente le capisco, sono un cacasotto patentato, ma se ci ripensiamo un attimo, che diavolo di benedizione è? La vera benedizione è che possa accaderci di tutto. Siamo venuti qui per evitare la vita oppure per viverla?

Se siamo venuti per vivere, la benedizione è che le cose ci accadano. Se invece non vogliamo vivere la vita, che in estrema sintesi è un turbinio di avvenimenti continui, cerchiamoci pure un ponte per lanciarci giù perché stare al mondo senza vivere risulta più penoso che essere già morti.

In estrema sintesi, si vive per vivere e fare esperienza. È tutto molto semplice. Quando sei vivo, vivi. E quando sei morto, muori. Ora respiriamo tutti inseme, concentriamoci sui nostri piedi che fanno un passo dietro l’altro… e andiamo.

I rasta non muoiono: un ricordo di Bunny Wailer

di Federico Traversa

Nel 2009 scrissi Bob Marley in This Life, il mio personale omaggio a Bob Marley, ai Wailers e al roots reggae, indiscutibilmente il genere musicale che più ho amato e maggiormente mi ha influenzato. Per farvi capire, la ditta individuale con cui fatturo gli articoli che scrivo o i diritti d’autore dei miei libri agli editori si chiama Wailers. Quando ero un ragazzino senza il becco di un quattrino costretto ad arrangiarsi con i più merdosi lavori di questa terra – lavavetri negli uffici dell’Ilva, barista, commesso in un negozio di scarpe, operaio in un colorificio, traslocatore – mi rivolgevo all’epica di Bob Marley, Peter Tosh e Bunny Wailer per trovare ristoro ai miei tormenti. Soprattutto quando la disperazione urlava forte e la cima del monte zion sembrava lontanissima, quasi irraggiungibile. Quei tre ragazzi poveri, malmessi, con situazioni famigliari super incasinate ce l’avevano fatta, e pure con stile. Quindi potevo farcela anche io. La loro musica aveva scaldato il cuore degli oppressi, il loro canto era riuscito ad accarezzare la barba di dio, tre “little birds” uguali ma diversi capaci di cantare con grazia la ribellione.

Bob, dei tre certamente il più noto, fu il primo a lasciarci, strappato alla vita da un maledetto cancro nel 1981, ad appena trentasei anni. Sei anni dopo toccò a Peter, l’anima più politica del reggae militante, freddato a quarantatré anni ancora da compiere da un malvivente del ghetto nel corso di una rapina parecchio strana. A tenere vivo il ricordo dei The Wailing Wailers – così si chiamavano in origine – era rimasto solo Bunny, il terzo little bird, quello che aveva lasciato il gruppo perché di girare come un forsennato in tour su e giù per babylon non ne aveva voglia; quello con un rapporto col tempo tutto suo, decisamente più libero e mescolato con la fede, dio, quel “natural mystic flow” che soffia tra gli alberi e gonfia le onde. E infatti dischi non ne ha fatti tantissimi e in tour è andato solo quando andava a lui, preferendo una vita più lenta, in cui potesse riconoscersi completamente. Da sempre impegnato nel sociale e premiato con l’ordine al merito dal governo giamaicano, Neville O’Riley Livingston – per tutti Bunny Wailer o, più affettuosamente, Jah B. – ci ha lasciati qualche giorno fa, per la precisione il 2 marzo, circa un mese prima di compiere 74 anni. Nel 2018 aveva subito un terribile ictus, dal quale si era ripreso non senza difficoltà dopo una lunga riabilitazione. Un nuovo ictus lo aveva colpito nel dicembre del 2020, costringendolo a un nuovo ricovero ospedaliero. Secondo Abijah Asadenaki Livingston – l’unico figlio maschio dei 13 avuti da Bunny e anche lui musicista – il nuovo ictus sarebbe stato causato dal dispiacere e lo stress accumulato per la scomparsa dell’adorata moglie Jean Watt, per tutti Sister Jean, con cui stava insieme da quasi 50 anni. Jean, malata di demenza senile, si era allontanata da casa nel maggio del 2020 e da allora non è stata più ritrovata.

Una fine triste per Jah B, con gli amanti del reggae di tutto il mondo in lutto e Blackheart Man – il capolavoro assoluto di Bunny pubblicato dalla Island nel 1976 – a risuonare simultaneamente nello stereo di noi tutti. Vedere poi, che nei nostri tg nazionali o in un contesto comunque “musicale” come il festival di Sanremo (iniziato proprio il giorno della scomparsa di Livingston) non si sia trovato tempo per salutare uno dei membri fondatori dei Wailers, lo trovo abbastanza vergognoso e di un’ignoranza al limite dell’imperdonabile.

A differenza di Bob e Peter, che ho potuto ammirare solo in video o ascoltare nei dischi, Bunny Wailer ho avuto la fortuna di vederlo di persona, una giornata stralunata e magica che non dimenticherò mai. Mi trovavo alla Reggae University, all’interno del Rototom Sunsplash, senza ombra di dubbio il festival reggae più bello e seguito d’Europa, che allora si teneva ad Osoppo, nel verde più verde, ed era uno spettacolo di balli, tende, musica e colori. Dovevo presentare proprio Bob Marley In This Life e insieme a me c’era il maestro della black music in Italia: mahatma Alberto Castelli.

Quella sarebbe stata l’ultima edizione della manifestazione a tenersi Italia, e dall’anno successivo il Rototom si sarebbe trasferito in Spagna.

Quel pomeriggio incontrai per la prima volta Alberto di persona, l’immancabile basco in testa, gli occhiali da sole e il sorriso caldo di chi, come dice lui, “cerca di vivere elegantemente in circostanze difficili”. Ci lanciammo subito in una bella chiacchierata su Marley, i Wailers, la storia del reggae. Davanti a noi un pubblico di una quarantina di persone. Eravamo già più che soddisfatti.

Poi ci distraemmo un attimo, un aneddoto sul king di qua, uno su Lee Scretch Perry di là, e quando alzammo la testa la sorpresa: il tendone che ospitava la Reggae University era stracolmo, non c’era un posto libero, mentre una marea di gente continuava a entrare restando in piedi. Il gasamento per essere capaci di simili sold out svanì quando ci rendemmo conto del motivo di quella ressa. Dietro di noi stavano – in attesa di iniziare una conferenza che non era stata annunciata ma volata di bocca in bocca grazie al passaparola proprio per evitare troppo afflusso – Chris Blackwell e Bunny Wailer.

Mamma mia” disse Alberto mentre salutavamo un pubblico molto generoso con noi nell’applauso e incassavamo pure il sorriso benevolo di Chris che, abbronzato, con la camicia di jeans e il cappellino verde militare, ricordava vagamente Vasco Rossi, però un po’ più magro. Ma non lo era. Era invece l’uomo che aveva fondato la Island, lanciato Bob Marley fra il pubblico bianco, messo sotto contratto gli U2 e tanti, tanti altri.

Bunny, vestito interamente di bianco, con bastone d’ordinanza e occhiali a specchio, al contrario sembrava un re che non regalava sguardi e cenni a nessuno, decisamente molto meno affabile dell’ex capoccia della Island. Ma fiero come poche persone abbia visto in vita mia.

La conferenza fra i due fu al fulmicotone. Il pacifico Chris cercava di mantenerla leggera, condividendo ricordi e curiosità divertenti. Peccato che Bunny non fosse di quell’idea e iniziò ad andarci giù pesante, accusando la Island di avergli fregato dei soldi, Blackwell di essere un truffatore, eccetera eccetera. Fu davvero folle e probabilmente anche ingiusto, soprattutto considerando quello che ha fatto Chris per la diffusione del reggae nel mondo, ma Bunny la vedeva così. E sapeva convincerti, con quella voce incredibile, quasi ipnotica nel raccontare storie che sembravano uscire dall’epicentro di una terra fertile, magma di un tempo mitico ormai perduto.

È tristissimo pensare che oggi Jah B non sia più con noi, che quella voce non suonerà più nel mondo e per il mondo. Ma che non si parli di morte, sia ben chiaro. Perché i rasta non muoiono, al limite si confondono col vento che soffia fra i boschi…

Un inchino per l’uscita dal palco di Mr Bunny Wailer.

Sanpa: Luci e ombre di Vincenzo Muccioli

di Federico Traversa

Televisivamente, il maledetto 2020 si è chiuso col botto: Sanpa è una delle serie più avvincenti degli ultimi anni, uno spaccato documentaristico che non fa sconti e, partendo dall’obbiettivo di raccontare la controversa Comunità di San Patrignano, dell’altrettanto discusso fondatore Vincenzo Muccioli, finisce per tratteggiare meglio di tanti libri di storia quell’Italia del recente passato sulla quale, neanche troppo nascosta, è cresciuta quella di oggi.

Nel corso della narrazione vengono fuori le luci e le ombre di un microcosmo salvifico per alcuni e infernale per altri, in cui si intrecciavano vita, morte, dipendenze, interessi economici, violenze, antipatie, amori, e su cui governava lui: Vincenzo Muccioli. Un baffuto e corpulento re senza corona, amato e odiato, che salvava, condannava, puniva e assolveva. Un po’ santone e un po’ santino, risoluto, egocentrico all’eccesso, non sempre limpido nelle sue scelte seppur innegabilmente efficace, Muccioli per un periodo ha rappresentato al meglio quello che la cultura italiana ha ricercato sin dalla sua tormentata unione sotto il vessillo tricolore: l’uomo della provvidenza, quello forte, affascinante, quello che possiamo stare tranquilli che intanto ci pensa lui. Perché l’italiano è da sempre abitato da una terribile retorica: so come andrebbe fatto ma siccome non ne ho voglia trovo chi lo fa al posto mio, possibilmente meglio. Per questo qui da noi più che in altre democrazie, l’uomo della provvidenza ha sempre vinto facile. E mi fermo qui senza sciorinare quante volte è capitato, da Mussolini in poi, non ultimo con il nuovo premier Mario Draghi, su cui fioccano complimenti tout court ed è sparita ogni tipo di critica.

Il buon vecchio Vincenzo Muccioli, per quanto scaldasse il cuore degli amanti dell’uomo forte, era certamente più divisivo. C’era chi lo amava, all’inizio la maggior parte, ma anche chi lo detestava, criticava e se ne teneva alla larga, soprattutto dopo i processi “delle catene” e la brutta storia della spedizione punitiva finita in tragedia, con un orribile omicidio che di fatto puntellò l’ultimo chiodo sulla bara del fondatore di San Patrignano.

Ok, cappello introduttivo finito, ora mi fermo un attimo e scendo sul personale per spiegare un paio di cose, datemi solo una decina di righe. Da quando Sanpa è andata in onda, in tanti mi hanno chiesto se l’avessi vista, cosa ne pensassi, quale fosse la mia opinione su Vincenzo e sulla comunità. Il perché di tanta curiosità sull’umile opinione di un povero Dio come il sottoscritto è presto spiegata: ho collaborato per anni con Don Andrea Gallo, fondatore della Comunità San Benedetto al Porto, il cui metodo riabilitativo era l’esatto opposto di quello utilizzato nella struttura di Muccioli. Ecco, fermiamoci pure qui e perdonatemi se vi deludo ma voglio subito sgombrare il campo e annunciare, persino con un po’ di imbarazzo, che durante la nostra frequentazione non ho mai affrontato in maniera approfondita il discorso della riabilitazione e dei metodi terapeutici delle comunità di recupero con Don Gallo. Certo, abbiamo parlato, e tanto, di dipendenze, delle droghe e delle mafie che sulle droghe lucrano protette da uno stato eccessivamente proibizionista, ma di comunità e di metodologie di recupero molto poco. E non perché l’argomento non mi interessasse ma semplicemente perché Andrea ne aveva già parlato allo sfinimento nei suoi libri, a partire dall’imprescindibile “Il Cantico dei Drogati – L’inganno Droga nella Società delle dipendenze”, nei dibattiti pubblici e in migliaia di interviste, quindi nei tre libri che realizzammo insieme ci soffermammo maggiormente su altro.

In quel periodo conobbi comunque molti ragazzi di Sanbe, con alcuni di loro mi sento ancora oggi, e di certo respirai un’atmosfera di grande libertà e rispetto. Stando ai loro racconti, l’approccio che aveva la comunità del Gallo era del tutto differente. Andrea cercava di mantenere intatte le individualità, di farle uscire fuori in maniera libera e costruttiva, non di mutarle in qualcosa di precostituito. Senza considerare poi che, nell’esatto momento in cui l’ospite riteneva non facesse più per lui, era libero di andarsene. Una porta sempre aperta, quindi, sia in entrata che in uscita.

Una realtà ben diversa da San Patrignano, almeno stando a quello che ci ha mostrato la docuserie targata Netflix, con gente incatenata, porcilaie, umiliazioni, suicidi, presunti stupri e addirittura un omicidio. E infatti sulla memoria di Muccioli, una volta osannato padre salvatore delle innocenti vittime dell’ago, si è abbattuto un terremoto di pareri negativi, insulti e ira, una ribollita d’odio che i suoi pochi sponsor, a partire dal figlio Andrea e dal vecchio amico Red Ronnie, hanno cercato di combattere senza successo, anche perché, questo va detto, alcune situazioni sembrano davvero indifendibili.

Ma togliamoci per un attimo la maglietta dei tifosi di questa o quella squadra e proviamo a ragionare tutti insieme. Se vogliamo tentare un’analisi un minimo obbiettiva su San Patrignano e il suo fondatore dobbiamo considerare che, al netto delle legittime critiche che oggi vengono fatte a Muccioli e al sistema squadrista di Sanpa, manca un aspetto fondamentale: il contesto storico, almeno agli inizi. E non stiamo parlando di una variabile di poco conto, credetemi. Sono cresciuto con un tossicodipendente in casa e vi sto parlando dei primi anni ottanta; allora le famiglie non sapevano che cosa fare, tutti vittime dello smarrimento più totale. Lo stato se ne fregava, al Sert il metadone o l’antaxone lo davano solo a chi era pulito da almeno 10 giorni, altrimenti non ne avevi diritto, e le famiglie non sapevano come raffrontarsi col problema. Si era proprio soli. C’era chi consigliava il dialogo, chi suggeriva le mazzate. Spesso le si provava entrambe ma la realtà, o perlomeno quello che mi è parso di capire in tutti questi anni, è che finché il tossicodipendente non decide veramente e in totale autonomia di smettere, non smette. Il 90% della buona riuscita di una disintossicazione è lì, l’altro 10% è una questione di fortuna, fortuna di incontrare le persone giuste e i migliori contesti possibili quando dici basta, e probabilmente anche dopo.

Negli anni ottanta si era soli e spaventati perché i ragazzi morivano come mosche. Mio padre faceva il capostazione a Sestri Ponente, quartiere operaio stretto fra la Marconi e la Fincantieri, e ogni tre giorni i suoi colleghi trovavano un morto nei bagni con un ago piantato nel braccio. Si era terrorizzati. Si era disperati.

Poi saltò fuori uno come Muccioli – grazie anche all’aiuto dei Moratti che finanziarono la struttura fino a farla diventare gigantesca – che più o meno disse: “Li prendo io, anche i più malmessi, anche quelli senza speranza, li prendo gratis, e state tranquilli che se fan storie li chiudo dentro e non li faccio uscire” .

E allora tante mamme e tanti papà, ormai esausti, hanno mandato a Sanpa i propri figli, perché comunque il suo orribile metodo “mazzate” e “sole piatti” tanti ne salvava.

A quale prezzo chiedetelo a chi ne è venuto fuori. Ma anche qui non vi aspettate risposte a senso unico. Fabio Cantelli, che a breve uscirà con il suo libro sugli anni trascorsi a fianco di Muccioli e della serie è stato una voce importante, vi racconterà la sua visione, che è diversa a quella dell’autista Walter Delogu o del medico Boschini. Anche la conduttrice Andrea Delogu, che a Sanpa ci è addirittura nata, ne ha parlato nel suo intensissimo romanzo La Collina.

Tante voci, tanti diversi Muccioli che vengono fuori. Alcuni addirittura raggelanti. Esiste un sito – www.lamappaperduta.com – dove vecchi ospiti di San Patrignano si confrontano raccontando le loro esperienze. Leggerle è come ricevere un pugno nella bocca dello stomaco dopo aver appena finito di mangiare. Si parla di botte, catene, docce gelate, abusi sessuali, follia. Atti non compiuti direttamente da Muccioli ma di cui il fondatore di Sanpa era certamente al corrente. E poi ci sono i racconti dei presunti rapporti sessuali fra Vincenzo e alcuni dei suoi ragazzi. Claudio Ghira, ex-medico di S. Patrignano, durante la sua deposizione al processo per l’omicidio di Roberto Maranzano, alla domanda se i rapporti sessuali nella struttura fossero controllati da Muccioli, risponde: “Certo, ma nessuno controlla i suoi. Eppure quante volte lo abbiamo visto a letto con i ragazzi più giovani? Per molti di noi, però, almeno fino a quando non si riesce a passare dalla fase acritica, anche quello viene visto come un modo per stare vicino ad una persona che sta male

Parli di rapporti omosessuali forzati?

So di un ragazzo milanese che sicuramente ha visto i suoi problemi aumentare proprio per le eccessive attenzioni del babbo. Il capo amava soprattutto avere rapporti orali. Diceva che anche quelli servivano per far passare energia positiva da lui ai suoi discepoli”.

Sergio Bombardi, uno dei fedelissimi di Vincenzo, il 30 maggio del 2012 pubblica una drammatica testimonianza sulla sua pagina facebook: “Un giorno mi chiamò Vincenzo e mi affidò una ragazza di Rimini dalla quale le donne – mi pare la Diella (Rita) & C. non riuscivano a cavare nulla. Questa poveretta e poi si capirà perché poveretta fu affidata a me. Io però avevo l’impegno del gruppo per il quale era prassi il pernottamento insieme e non si poteva certo mettere a dormire una ragazza con qualche decina di ex o tossici. Mi disse (Vincenzo Muccioli, ndr) di andare con lei a vivere nella mansarda che fu alloggio di Vincenzo per un certo periodo. Non ricordo l’anno ma sicuramente prima del ’90. Durante il giorno sarebbe stata con noi chimici in laboratorio.

Lei non collaborava ed io iniziai a menare. La picchiavo con un bastone ovunque capitasse. Non la colpivo forte perché avrei potuto non solo farle male ma anche spaccarle un osso o chissà … la picchiavo con questo bastone e levavo subito il colpo.

Scusate il paragone ma si deve capire: la picchiavo come si suona la batteria: si dà il colpo e si leva immediatamente il bastone.

La colpivo anche in testa anzi furono parecchi i colpi in testa. Lei dura come il ferro neppure si lamentava.
Il giorno dopo alla sveglia trasalii. La testa e la faccia erano il doppio del normale. Chiamai il dottore ma non ricordo chi venne. Ricordo che mi guardò come si guarda un pazzo e mi disse di calmarmi. Non capitò nulla. Io credevo di aver esagerato come del resto era, aspettavo Muccioli che mi chiudesse in un tino e invece nulla. Restammo chiusi in mansarda per più di una settimana. Ricordo che il versamento dal cranio passò al collo e poi piano piano si riassorbì.

Non fini qui: la ragazza non collaborava ed allora si passò alle docce gelate. Io la mettevo nuda in doccia prendevo il getto in mano e perpetravo quest’altra violenza con la consapevolezza del mostro che sono stato parecchie volte.

A forza di vederla nuda un giorno mi feci masturbare… questo andò avanti per un mese o giù di lì.
Poi la ragazza che non aveva mai avuto problemi di droga ma era piuttosto un soggetto borderline cioè non abile come si intende, ma un po’ diversamente abile, collaborò.

Vincenzo a cena mi disse di alzarmi unitamente a questa ragazza della quale non ricordo il nome ma ricordo era di Rimini e doveva essere figlia di amici dei Muccioli, io pensai “ecco adesso mi fa nero”. Invece mi coprì di elogi e tutti mi fecero l’applauso più sincero!!!”.

Verità o vili diffamazioni?

Impossibile stabilirlo oggi.

Per cercare di saperne un po’ di più e raffrontarmi con una fonte diretta, ho chiesto lumi a un amico di lunga data che è stato tre anni a Sanpa. Lo chiameremo Y per tutelarne l’anonimato. Y aveva 23 anni ed era messo parecchio male quando, sul finire degli anni ottanta, finì a San Patrignano. Laggiù pianse, prese qualche ceffone, imparò a lavorare il legno e si ripulì. Fu dura, durissima. Oggi è un papà che ogni giorno si occupa del figlio adolescente, ha un lavoro stabile, e nel tempo libero gira in moto e ama fare lunghe passeggiate nei boschi. Se gli parli di Muccioli, a Y si illuminano gli occhi e prova per lui una grande riconoscenza. L’esperienza di San Patrignano gli ha salvato la vita.

Vedete? Le persone, esattamente come la vita, non sono mai tavolozze piene ma colori sfumati, mescolati, in perenne bilico fra la luce e l’ombra.

Allora i tossicodipendenti erano tanti, un’infinità, e le comunità avvedute troppo poche. E allora toccava turarsi il naso e andare da Muccioli, con i suoi metodi violenti, gli abusi, la maniacale disciplina e tutto quanto. Perché quegli anni sono stati una strage e le barbarie di Sanpa erano sempre meglio del vedere giovani nel fiore della vita spegnersi nei cessi delle stazioni.

Ecco, questo contesto, all’avvincente docuserie di Netflix, un poco manca; parlo dell’odore della disperazione negli occhi di tanti padri e madri che hanno perso i loro figli; parlo del rumore delle campane che rintoccavano cupe durante i funerali di ragazzi di nemmeno vent’anni; parlo dello sguardo vuoto di migliaia di anime giovani in corsa verso la morte. Un oceano di dolore che forse, e sottolineo forse, compensa gli imperdonabili errori di Vincenzo Muccioli e di San Patrignano.

O forse no. Una cara amica disintossicatasi tanti anni fa nella comunità di Don Gallo, e oggi valente scrittrice, mamma e donna impegnata nel sociale, mi fa notare che “il fatto che in quel periodo ci sia stato un Muccioli che, per le dimensioni che aveva la sua comunità, rappresentasse per tante famiglie o disperati in difficoltà l’unica spiaggia in cui sperare e a cui aggrapparsi lo comprendo ed è indiscutibile. Detto questo, se in tanti ce l’hanno fatta non significa che non ce l’avrebbero fatta senza quei metodi brutali”.

Anche questa è una chiave di lettura. Un’altra potrebbe essere da ricercare nell’eccessiva espansione di San Patrignano, che in pochi anni passò da ospitare un centinaio di ragazzi a oltre duemila persone e Muccioli fu costretto a delegare ad altri quello che non riusciva più a seguire direttamente. Gente non preparata che, inebriata dal potere, commise errori dagli effetti devastanti.

Sia quel che sia, oggi Muccioli non c’è più, ma i tossicodipendenti ci sono ancora. Temo ci saranno sempre, il passaggio alle droghe pesanti è diventato una sorta di stupida “prova di coraggio”, un rituale quasi necessario per una società che ormai da tempo ha perso ogni valore alto a cui il giovane, legittimamente, ambisce per spendere se stesso. E allora anche la droga, o meglio il passaggio attraverso il suo mondo, assume un valore rituale affascinante. Tutte le scelte più estreme dei ragazzi, dal fanatismo religioso in poi, sono figlie della necessità di cercare una maggiore profondità, quasi un disperato bisogno di quell’epica che la nostra società ha sacrificato nel nome degli agi, delle frasette motivazionali da baci perugina, del dio consumo.

La droga, almeno all’inizio, quell’apatica sicurezza priva di emozioni te la toglie. I legami, in quel mondo, si fanno più intensi, tanto nel bene quanto nel male. Ami di più i tuoi amici e odi di più i tuoi nemici. Ogni metro in strada un’avventura, una lotta per sopravvivere.

Un’ epica forte, un’epica che cattura.

Poi, quando in quel mondo ci sei davvero, le cose sono un pochino diverse: soffri come un cane, ti cola il naso, ti caghi nei pantaloni e fai cose di cui ti vergognerai tutta la vita, sempre che tu abbia la fortuna di fartela, una vita.

Ovviamente non è tutto qui. Il discorso è immenso, e abbraccia tutti gli infiniti raggi di quel complesso ingranaggio alla base dell’umana condizione. Alla droga si può arrivare perché si proviene da famiglie sbagliate, perché subentrano problemi pesanti, per una sensibilità o fragilità troppo spiccate, per una predisposizione genetica, addirittura per puro caso, ammesso che esista.

Non è un argomento facile, ci sono troppe sfumature, troppe luci e troppe ombre, proprio come dentro Sanpa e il suo strano, chiacchierato fondatore: Vincenzo Muccioli.

Forse certi problemi, così come certe figure, non vanno compresi a livello intellettuale ma scavalcano l’intelletto e pretendono un’attenzione, e poi un’accettazione, più profonda, pura, totale. Non concetti da impilare e razionalizzare, quindi, ma esperienze.

E le esperienze, belle o brutte che siano, le comprendi solo per “assorbimento”.

“Ci Manda Manu Chao” – Quella volta che con Tonino Carotone incontrammo Don Gallo

di Federico Traversa

Un notte di tantissimi anni fa, mentre io e Tonino ci stavamo bevendo Barcellona e tutti i suoi fantasmi, incontrammo Manu Chao e, a dire il vero, un sacco di altra gente. Eravamo tutti stipati in un baretto vagabondo del barrio gotico, il Mariachi. Santi e peccatori, artisti e spacciatori, risate e rimpianti galleggiavano insieme, protetti da quelle quattro mura che odoravano di vino, tabacco e venere. E dove si suonava una musica strepitosa. Erano gli ultimi anni di quella mescola di suoni e generi frettolosamente definita patchanka, con gente tipo Sergent Garcia, Amparanoia, Macaco, Gogol Bordello, Bandabardò (sempre nel cuore Erriquez, grazie del ballo, già manchi da morire) e tanti altri a incendiare la notte con suoni contaminati che odoravano di tutte le diversità del mondo. Un’ultima grande stagione creativa prima che la musica si accartocciasse su stessa, appiattendosi fino a far scomparire tutte le sue meravigliose sfumature per diventare qualcosa di piatto, da ascoltare distrattamente sulle casse marce di un cellulare grande come una tavoletta di cioccolato.

Ma torniamo a visualizzare quella notte. Eravamo al Mariachi, proprio nel cuore pulsante del barrio chino, e la prima cosa che mi chiese Manu appena venne a sapere che ero di Genova, fu se conoscessi Don Gallo. Certo, di fama lo conoscevo eccome, nella sua comunità erano transitate tante anime tormentate con cui avevo intrecciato pezzettini di destino, ma personalmente non l’avevo mai incontrato.

Il desaparecido, stretto nella sua camicia a quadri, i capelli scombinati che spuntavano da un berrettino verde militare, mi consigliò di rimediare al più presto perché, parole sue, “fare due chiacchiere con Andrea te pone los pelos de punta”. Questo disse, o qualcosa del genere.

A quel punto anche Tonino, che da sempre si definiva un “antivaticanista convinto”, manifestò la voglia di conoscere questo strano prete che al Padre Nostro accompagnava i canti partigiani e più che il rosario amava recitare gli articoli della costituzione; sempre in mezzo a quei figli di un cane che non avevano niente, sempre in giro in quei quartieri dove la luce del buon Dio non arrivava con i suoi raggi. E per quanto riguarda quella notte, è più o meno tutto.

Passarono i mesi. Con Tonino finimmo di scrivere Il Maestro dell’Ora Brava, il nostro delirantediario di peccati, viaggi e risate sparse come sale sulle ferite delle tante notti trascorse insieme fra l’Italia e la Spagna. Quel libro ottenne una buona quanto inaspettata visibilità nazionale. Uscirono articoli sui principali quotidiani, venimmo invitati da Fabio Volo a MTV, e la rivista Rolling Stones ci dedicò un bel paginone definendo il libro una sorta di “confessione laica”. Mediaticamente fu davvero un bel colpo, eppure allora il libro non vendette tantissimo e in breve tempo sparì dagli scaffali delle librerie; poi con il tempo si è rivalutato e oggi, un po’ a sorpresa, non solo è andato esaurito ma è diventato quasi una lettura di culto per la generazione SDC (sta per “scappati di casa”, lo specifico per chi non è pronto). Su ebay l’ho visto vendere a prezzi assurdi e un paio di ragazzi ai concerti ne portarono una versione fotocopiata per farsela firmare! Queste sì che son soddisfazioni!

Con Tonino nacque un’amicizia speciale e quando lo portai dalle mie parti, in mezzo ai miei disperati, lui – ragazzo di strada di Pamplona – si sentì talmente a suo agio che Genova diventò la sua seconda casa. Cominciò a fermarsi spesso da me e, un giorno in cui avevamo un po’ più tempo del solito, decidemmo di andare a conoscere Don Gallo.

Andrea aveva da poco pubblicato Angelicamente Anarchico, un libro che aveva ottenuto un successo pazzesco. La storia di questo prete di strada e dei suoi disgraziati stava toccando il cuore di migliaia di persone.

Così chiamai la Comunità, mi presentai e poi dissi che Tonino Carotone, grande amico di Manu Chao, era in città e desiderava incontrare Don Andrea Gallo. Risposero che gli amici di Manu erano anche amici loro e che saremmo potuti passare quando volevamo. Così, verso sera, partimmo alla volta della Comunità San Benedetto, dieci minuti d’auto da casa mia. Eravamo io, Tonino e Piluca, la sua compagna nonché cantante dall’ugola morbida come un petalo di rosa. Donna incredibile, di un’umanità di altri tempo, alta, altissima. In tutti i sensi. Scalza misura circa un metro e ottanta. Con i tacchi sfiora il metro e novanta. Con Tonino che arriva a malapena al metro e settanta… insieme sono buffissimi.

Appena entrammo nell’ufficio e il Gallo vide Piluca, tuonò con la sua voce arrochita dall’immancabile toscano che stringeva fra le labbra: “Ma cos’è questo ben di dio?”.

Scoppiammo tutti a ridere, il ghiaccio si era rotto nel tempo dell’attacco di una rumba.

Chiese a due ragazzi della Comunità di andare a prendere delle birre e brindò al nostro arrivo. Spuntò anche una bottiglia di grappa barricata, se non ricordo male.

Dire che quell’incontro è stato uno dei momenti più importanti della mia vita non è un’esagerazione.

Andrea cominciò a raccontarci aneddoti, storie mitiche, barzellette e segreti, alternando momenti di profondità ad altri di leggerezza assoluta. Non ci voleva un genio per capire quanta straordinaria umanità e gentilezza abitassero quel corpo minuto, stretto in un maglione blu scuro.

Il Gallo non era soltanto un prete di strada che si prodigava per dare ai ragazzi la possibilità di vivere un’esistenza migliore ma anche un uomo di una cultura, un’intelligenza, un’arguzia e un’apertura mentale che probabilmente non avrei raggiunto nemmeno vivendo altri cento anni.

Stordito da mille sensazioni, mi fermai a pensare a quanto mi avrebbe arricchito collaborare con una persona del genere, assorbendo come una spugna tutte le cose che aveva da raccontare.

Già con Tonino avevo cominciato a parlare di certe cose, impegnandomi nella testimonianza di storie legate all’impegno sociale, alla spiritualità e a una visione del mondo il più possibile libera dai dogmi.

Con Don Gallo avrei potuto proseguire questo nuovo percorso affrontando quelle tematiche che sentivo vicine. Tematiche raccontate dalla voce di chi aveva vissuto e conosceva un miliardo di cose più del sottoscritto. A quel punto, dandogli del tu come mi aveva ordinato, gli domandai se fosse sotto contratto con qualcuno, perché mi sarebbe piaciuto lavorare con lui. Rispose che collaborava con chi capitava, l’importante era far passare quello che aveva da dire e magari riuscire a portare due soldi alla Comunità, che era sempre in rosso.

Gli spiegai allora che anche io avevo un progetto editoriale, tanto entusiasmo e altrettanta voglia di scrivere. L’unica cosa che mi mancava erano i soldi ma ormai ci avevo fatto l’abitudine, ridotto i bisogni al minimo e imparato a vivere con poco. E mal che andasse avevo ancora due reni perfettamente funzionanti che certamente avevano un buon valore di mercato!

Rise come un pazzo. Poi si fece raccontare di nuovo la mia storia, chiamò il suo assistente e gli disse: “Ma ti rendi conto, Marco? Questo ragazzo faceva il commesso in un negozio di scarpe e si è licenziato perché ama la letteratura e vuole fare i libri. E non è figlio di un industriale o di un professore ma di un ferroviere! Ma come si fa a non dargli una mano?”.

Mi suggerì di richiamare in Comunità qualche giorno più tardi per fissare un appuntamento, così avremmo potuto iniziare a lavorare.

Uscii da lì che ero contento come poche volte in vita mia.

Poco cristianamente io e Tonino ci ubriacammo per festeggiare.

Tonino in realtà non aveva niente da festeggiare, si ubriacò per supporto.

E per questo ancora lo ringrazio.

Jim Morrison e il grande beat – ascoltando i Doors sotto la pioggia

di Federico Traversa

Tempi bui, difficili, scuri, quelli che stiamo vivendo. Tempi senza poesia, senza arte, senza musica. In più piove e, per lo meno qui in Liguria, il grigiume uggioso che ci circonda sembra non finire mai. Andiamo avanti così da settimane. E non è facile. In questo periodo sono sommerso dai problemi, credetemi. Volatili per diabetici duri come pietre. E, come detto, piove. Piove e manca poesia. Poesia e musica nell’aria.

E come si combatte quel misto di preoccupazione, malinconia, ansia e scazzo esistenziale che ti avvolge in certi momenti?

Davvero non lo so ma io, nel dubbio, ASCOLTO I DOORS.

L’ho sempre fatto e probabilmente sarà alla loro musica che mi rivolgerò finché campo. Sin da quella sera di ormai quasi quarant’anni fa quando, bimbetto di prima o forse seconda elementare, rimasi rapito da quel suono ipnotico e quella cadenza sinistra ma non triste che accompagnava l’ultima canzone del lato B di quella strana cassetta che mio padre aveva infilato nel mangianastri dell’autoradio mentre rientravamo dalla campagna, attraversando il passo del Turchino inghiottiti dalla nebbia. Gliela aveva passata mio fratello Fabrizio, sette anni più grande di me, che già abitava un mondo fatto di rock e ribellione alimentato da gente tipo Pink Floyd, Neil Young, Lou Reed, Deep Purple, Black Sabbath e, da qualche tempo, pure dal gruppo protagonista di quella cassetta matchata sony di colore bianco e rosso. The Doors, così aveva scritto a penna Fabri sulla banda adesiva. E ciao. Rimasi rapito da quel mondo, da quei suoni dilatati – a tratti morbidi, a tratti ossessivi – dalla sensazione di entrare in una dimensione coerente seppur narcotica in cui non ci si limitava all’ascolto di una successione di canzoni ma si andava a vivere un’esperienza “inusuale”.

E poi c’era la voce, quella strana voce, così diversa da quella degli altri cantanti che le mie giovani orecchie di bambino avevano ascoltato. Ovviamente allora non capivo nulla di musica, e ad essere onesti probabilmente neanche oggi che ne scrivo, ma avvertii in quel canto qualcosa che mi faceva venire in mente gli indiani d’America, un popolo che mi affascinava e per cui tifavo con cori da stadio durante ogni film western. No, nessuna coscienza politica, nessuna consapevolezza delle tante angherie che i nativi avevano dovuto subire dall’uomo bianco, semplicemente adoravo i capelli lunghi, e quelli degli indiani, cristo santo, erano fantastici.

Ma torniamo al viaggio in macchina, alla nebbia fitta, alla pioggerella che cade mentre qualcuno ci racconta che “the blue bus is calling us”. Credetemi, io lo sentii davvero quel richiamo, e lo sento ancora oggi, in particolare nei momenti di scazzo cosmico, in particolare quando piove.

Stacco temporale; ho sedici anni, faccio la seconda superiore, ho da poco scoperto le ragazze e mi trascino ogni mattina verso la scuola senza voglia, desiderando di essere da tutt’altra parte, a vivere una vita diversa, lontano dai problemi. A casa va di merda, in famiglia è arrivata l’eroina e ogni volta che squilla il telefono la paura ci mangia vivi. Fabrizio è sempre stato un tipo inquieto. Intelligente, sveglio, uno che leggeva Dostoevskij a 11 anni e si faceva un sacco di domande. Era prevedibile si incasinasse la vita. Continuo ad ascoltare quella cassetta dei Doors, in particolare quando piove, ed è bellissimo lasciare lo sguardo a briglia sciolta fuori dalla finestra mentre quel suono invade la stanza.

Allora non esiste internet e i giornali musicali raramente parlano di un gruppo il cui cantante pare sia morto in una vasca da bagno 20 anni prima. Le uniche cose che so di questi Doors, sono frammenti di storia che il mio meraviglioso fratello borderline mi racconta a spizzichi e bocconi, quando gli vengono in mente. Tipo che il cantante dalla voce così tribale e ipnotica si chiamava Jim Morrison e, cito le parole di Fabri come me le ricordo, “era un fuori di testa, viveva sui tetti, scriveva poesie e andava nel deserto a farsi di peyote, il catctus allucinogeno che prendevano gli sciamani indiani. Belin, deve essere una bella botta, peccato che qui da noi non si trovi…”.

Capite bene che per un ragazzino di sedici anni che cercava solo un modo per fuggire da una realtà incasinata, un racconto del genere fu quasi una rivelazione. Quando una sera mio fratello portò a casa un altra cassetta registrata – stavolta nera, rossa e bianca, e chi ce l’aveva i soldi per comprarle originali? – la mia epifania proseguì. Solita bianca banda adesiva, stavolta con scritto non soltanto The Doors ma L.A. Woman – The Doors.

Donna di Los Angeles, un concetto così distante da Sestri Ponente, la periferia di Genova in cui stavo crescendo, una realtà operaia fatta di cantieri navali, Italsider, tossici con gli aghi conficcati nel braccio che si accasciavano nei bagni della stazione e un mare che non si riusciva più a vedere, se non salendo in alto, fino alla Madonna di quel monte Gazzo che da lassù ci stava proteggendo poco e male.

Amici, mi credete se vi dico, che stava tuonando quando partì l’ultima canzone del disco?

Non riuscivo a capire se la pioggia che sentivo provenisse da fuori o da dentro le cuffie, per accompagnarmi attraverso la magia liquida di Riders on The Storm.

Quel disco mi ammaliò ancora più del primo, già mi immaginavo con lo zaino in spalla e le cuffie nelle orecchie, in giro per il mondo alla ricerca del grande beat.

Lo ascoltavo tutte le mattine, sul treno di noia che mi portava a scuola.

Considerate adesso che, fino ad allora, io Jim Morrison non l’avevo mai visto, nemmeno in foto.

Poi arrivò il film di Oliver Stone e cambiò tutto.

Fu Doorsmania. Fu Morrisonmania.

Poster, libri vecchi di anni che trovavano nuovo smercio e venivano ristampati, la copertina del The Best of the Doors che campeggiava ovunque, col ritratto a torso nudo del giovane leone Jim, con i capelli lunghi e arruffati, la collanina di perle e quello sguardo pericoloso.

Scazzo esistenziale a parte, a scuola andavo bene, così mia madre mi diede i soldi e quella raccolta – più tardi avrei capito che più che un best era una semplice selezione di singoli perché se nel meglio di un gruppo come i Doors tralasci pezzi come Soul Kitchen, Peace Frog, The Soft Parade, Roadhouse Blues, The Spy, sei un criminale – fu il primo disco originale comprato dal sottoscritto.

Poi, un sabato pomeriggio, andai a vedere il film.

… … … … …

Fermo restando che era una pellicola non del tutto veritiera, esagerata, non corretta nei confronti di Morrison e tutto quanto, avete idea cosa potesse provocare un film del genere in un ragazzino inquieto, poco avvezzo alle regole, con tanti casini in casa e una passione smodata per la poesia e il mondo degli indiani?

Fu una detonazione. Uscii da quel cinema – mi pare fosse l’Universale, che se la memoria non mi inganna stava in via Cesarea, più o meno dove ora c’è la Feltrinelli – che ero completamente stonato. Stonato di parole, suoni, suggestioni, idee, possibilità…

Combinazione, anche in quello strano pomeriggio del 1991, pioveva a dirotto ma me ne fregai bellamente e mi feci la strada fino alla fermata dell’autobus in P.zza Caricamento – amici non genovesi, credetemi se vi dico che da via Cesarea è un bel pezzo – sotto la pioggia, con L.A Woman in cuffia, i capelli fradici e il bomber blu d’ordinanza così zuppo che l’acqua iniziò a scendermi sul collo, visto che quel reperto bellico degli anni novanta di colletto non ne aveva proprio.

Qualche giorno più tardi scrissi la mia prima poesia, Era Lei, dedicata a una ragazza svizzera che avevo conosciuto d’estate all’isola d’Elba. Versi sciatti e banali ma almeno avevo iniziato. Un’altra ragazza dolcissima, dai capelli scuri tagliati tipo la Valentina di Crepax e gli occhi azzurri, mi regalò Nessuno Uscirà Vivo di Qui, la biografia di Jim.

Leggerla fu la fine di quello che ero e l’inizio di ciò che sarei diventato. Grazie al bellissimo, seppur discusso, libro della coppia Hopkins/Sugerman conobbi tutti quegli incredibili scrittori che avevano influenzato Jim: Baudelaire, Rimbaud e tutti i simbolisti francesi; Jack Kerouac, la beat generation; Carlos Castaneda, lo sciamanesimo; Aldous Huxley e le esperienze psichedeliche; William Blake; la meditazione trascendentale. E poi le onde dell’Atlantico, i motel da pochi spiccioli di L.A., la Parigi degli artisti, il deserto, i navajo, la stregoneria… da uscirne pazzi.

E infatti impazzii del tutto e, forse, non sono ancora rinsavito.

Oggi ho 45 anni, al solito piove a dirotto in questa fottuta città e la mia vita è cambiata almeno in 100 modi diversi da allora. Ho una moglie bellissima, due figli meravigliosi e qualche casino di troppo, ultimamente. Ho Imparato a meditare e a scendere a patti con le regole ma una certa inquietudine esistenziale è rimasta, credo che da quella non si guarisca. Dove sono io c’è sempre musica nell’aria, tanta musica nell’aria. Di mestiere faccio lo scrittore e ho un programma alla radio, si chiama Rock is Dead, come quella pazza jam che una sera del ‘69 i Doors registrarono ai Sunset Sound.

Perché faccia questo mestiere, perché continui a battere le dita sulla tastiera alla ricerca del grande beat, beh, ora lo sapete.

E quando piove, quando avete lo scazzo cosmico, davvero amici, datemi retta: ascoltate i Doors.

Il TAO di Willie Nelson – Ovvero come invecchiare con un certo stile

di Federico Traversa

Se per uno strano gioco del destino fossi costretto a scegliere di essere qualcun altro e vivere dall’inizio alla fine la vita di un essere umano diverso da me probabilmente sceglierei di essere Willie Nelson.

E per svariati motivi. Intanto perché, come testimoniano i suoi amici, nessuno ride più forte e di gusto di lui. Mentre sto scrivendo queste pagine sta per compiere 87 anni ed è un marito, padre, nonno e bisnonno felice che trascorre 200 giorni all’anno in giro a suonare con la sua band e gli altri diviso fra il suo ranch nel Texax a contatto con la natura e la sua fantastica casa alle Hawaii dove, in compagnia della quarta moglie Annie (tranquilli dovrebbe essere l’ultima, ormai stanno insieme da quasi trent’anni), ama rilassarsi, coltivare cannabis di altissima qualità e comporre canzoni.

D’altronde puoi anche permetterlo se hai venduto oltre 100 milioni di dischi, sei il fuorilegge più amato d’America e a quasi 90 anni godi di perfetta salute. “The Last man Standing” come titola uno dei suoi ultimi album.

Senza dimenticare la sua lunga attività filantropica e l’impegno a favore di diverse cause umanitarie: per la pace, a sostegno delle fattorie a conduzione familiare, per il salvataggio degli animali, la legalizzazione della marijuana, i diritti LGBTQ o le cause ambientali

E poi vorrei essere Willie anche per un’altra ragione, probabilmente più stupida: è stato l’unico uomo di cui al momento si abbia notizia a essersi fatto una canna sul tetto della Casa Bianca insieme al figlio del Presidente degli Stati Uniti! Questo sì che è uno schiaffo al potere. E se non ci credete chiedete al figlio di Jimmy Carter cosa capitò quella sera del 1977.

Scherzi a parte, vorrei essere Willie perché pare sia una persona bellissima, disponibile, alla mano, che si comporta allo stesso modo sia che di fronte si trovi un titolato miliardario che l’ultimo punk rocker ubriaco del più sfigato club di provincia.

Uno a cui viene bene tutto, e che qualsiasi cosa faccia riesce a restare credibile; d’altronde uno dei suoi motti preferiti è: “Se te ne frega troppo non ce la farai”. Che poi è il modo cowboy per rimarcare cosa diceva il Buddha a proposito di uno dei più grandi veleni dell’umanità: l’attaccamento.

Eppure, oltre alla buona educazione ricevuta e a una linfa strutturale di primissimo livello, alla base di questa longevità disarmante, dei successi e della sincera gioia di vivere di Willie c’è un segreto. Nonostante sia texano, non si professi di una religione specifica e il suo genere musicale preferito sia il country (anche se non disdegna fruttuose puntata nel reggae) da decenni studia con impegno le filosofie orientali e, in particolare, applica i suggerimenti del Tao Te Ching. Si tratta della raccolta di versi in prosa del mistico cinese Lao Zi, anche se in molti mettono in dubbio l’esistenza del suo autore. Pare che il libro sia stato composto tra il IV e il III secolo a.C. ma anche lì vai a sapere… La leggenda narra che, stanco delle guerre fra i vari sovrani cinesi in cerca di potere, Lao Zi decise di allontanarsi dalla corte per vivere il resto dei suoi giorni in pace, lontano da tanta avidità e cattiveria. Partì così in sella al suo bufalo ma, arrivato al confine dello stato, venne fermato dal guardiano del valico. L’uomo riconobbe immediatamente il mistico e gli disse che non poteva andarsene prima di aver lasciato un segno tangibile del suo sapere. Lao Zi allora compose il Tao Te Ching. Finito di scrivere questo estratto di saggezza di 5mila battute lo consegnò al guardiano e se ne andò. Da allora di lui non si seppe più niente.

Una storia davvero suggestiva ma ancor di più lo è la lettura dell’opera, un concentrato di saggezza, filosofia e insegnamenti per vivere una vita piena e in armonia con le leggi di natura. E il nostro Willie da Abbott, Texax, invece di sgranocchiare pannocchie e leggere storie di mandriani ha fatto suoi gli insegnamenti del Tao molti anni fa e da allora li segue, adattandoli alla sua vita di rockstar e family man. Qualche anno fa ci ha fatto anche un libro, The Tao of Willie, che è stato un best seller in America.

Nel libro Willie spiega, in maniera molto ironica e chiara, cosa gli ha insegnato il Tao, in cosa crede e su quali principi basa la propria condotta; fornisce inoltre alcuni suggerimenti che gli sono stati utili per affrontare questa galoppata selvaggia che è la vita. Insomma, parafrasando Lao Zi, ci offre la “sua via”. E vi assicuro che raramente mi è capitato di leggere un testo così pregno di ironia, saggezza e buon senso.

Riassumendo, Mr Nelson, nel suo modo colorito di vecchio ragazzaccio texano con un quarto di sangue cherokee, ritiene che:

1 – Le cose che credi ti rendono la persona che sei. Esiste il potere del pensiero positivo

Una verità innegabile, e la fisica quantistica ce la spiega molto bene: l’osservatore influenza l’esperienza e l’esperienza influenza l’osservatore. Tu influenzi quello che vedi e quello che vedi ti influenza a sua volta. Andando più in profondità, anche quello che pensi ti influenza e cambia il tuo assetto mentale, proprio a livello chimico. Mi aiuto con un po’ di neurofisiologia studiata di corsa e con grande fatica. Ogni pensiero che facciamo, attraverso l’attività dell’ipotalamo, genera peptidi, che sono delle sostanze chimiche che si legano ai ricettori delle nostre cellule e le modificano. I peptidi vengono convogliati verso la ghiandola pituitaria, da qui nel circolo ematico e quindi in tutte le cellule presenti nell’organismo. Agganciandosi alle cellule i peptidi creano fenomeni fisiologici infinitesimali che possono tradursi in grandi cambiamenti nel comportamento, nell’attività e nell’umore. Queste sostanze chimiche si legano infatti ai ricettori e assumono il “controllo” delle attività della cellula, tra le quali quella di ordinare la composizione delle eventuali nuove cellule. La sconvolgente scoperta è quindi che molte nuove cellule sono generate in base a ciò che sentiamo e pensiamo! Ma c’è di più. Se la cellula riceve peptidi prodotti da pensieri negativi, quella nuova avrà più ricettori predisposti a ricevere peptidi “negativi” e meno ricettori disposti a ricevere peptidi “positivi”. Detto in maniera più semplice: le nostre cellule diventano dipendenti dagli stati d’animo che più produciamo. Per questo più ci facciamo coinvolgere da uno stato d’animo più il nostro corpo lo richiederà. Quindi quello che da secoli teorizzano le filosofie orientali e pure il buon vecchio Willie Nelson oggi è comprovato anche dalla scienza così detta tradizionale. Per questo sarebbe importante nutrirsi, sia materialmente che spiritualmente, di equilibrio e positività.

2 – C’è una saggezza presente all’interno di noi che ci guida.

Al di là della banderuola del pensiero, oltre l’animalesca serranda dell’istinto, esiste un luogo pacifico a cui possiamo attingere per trovare risposte equilibrate. Sting ce lo racconta molto bene nella celebre Let your soul be your pilot, quando dice: “Quando le preoccupazioni aumentano, quando la mappa che stavi seguendo ti porta a dubitare, quando non ci sono più informazioni e la bussola indica solo luoghi che non conosci, lascia che la tua anima ti indichi la strada. Ti guiderà bene”. Dentro ciascuno di noi esiste questo luogo calmo, imperturbabile e tranquillo. Ma va riscoperto, ravvivato e compreso ogni giorno. E il metodo per farlo, come suggeriscono i grandi saggi – e anche Willie nel successivo punto – è la meditazione.

3 – Il respiro consapevole è fondamentale, la nostra forma di meditazione.

Willie utilizza la respirazione per meditare, altri la ripetizione di un mantra, altri ancora la visualizzazione. Non è importante, sono tutte strade che conducono allo stesso posto. Grazie al respiro possiamo immettere energia divina dentro i nostri polmoni e attraverso il sangue verso il nostro cuore e la nostra mente. La respirazione può calmarci e metterci in contatto con il nostro spirito. Se tu ti concentri e ascolti il tuo respiro sentirai il suono di Dio. Quando inspiri porti aria nuova, ossigeno dentro di te, mentre quando espiri espelli ossido di carbonio per le piante e gli alberi che producono ossigeno per te. Secondo Willie, in ultima analisi, la logica del circolo della vita si può riassumere nel piantare un albero e respirare profondamente.

4 – Come ben sottolinea il Tao, Dio è ovunque e in ogni cosa, quindi puoi parlare con lui anche guardando dentro di te.

… … …

5 – Esiste la reincarnazione e la legge del karma.

Willie ci crede fermamente e, per quel che importa, anche a me sembra la spiegazione più plausibile. Secondo le filosofie orientali, le persone si reincarnano per effetto del karma. Ma cos’è questo misterioso karma? Certamente pare essere molto di più di una suggestione mistica; infatti possiamo riscontrare un applicazione scientifica del karma nelle nostre vite. Ogni azione è l’ultima di una serie di cause ed effetti che si susseguono nel tempo. Pensiamo, ad esempio, a una cosa che ci fa molta paura e destabilizza tutti noi occidentali: il terrorismo di matrice islamica. Ebbene, se pensiamo al terrorista e ai suoi atti scriteriati e analizziamo il tutto partendo da lontano, non potremo che renderci conto che l’azione scriteriata del deficiente che si fa saltare in aria è solo l’ultima conseguenza di una serie di azioni sbagliate, e che coinvolgono anche la nostra società, che partono dalle crociate oltre 500 anni fa e, passando per la colonizzazione di Africa e Medio Oriente, arrivano ai giorni nostri… e questo vale per tutti gli aspetti della nostra storia. La vita e i suoi vari cicli non si fermano e ripartono punto a capo, ma sono retti da una serie di azioni e dalle relative conseguenze. È il principio di azione-reazione, causa ed effetto. Nel Vangelo il concetto di karma è riassunto nel detto: “come semini, così raccogli”.

Si tratta di una catena inarrestabile e imperscrutabile. Troppi sono i fattori in gioco e le interazioni per comprenderla. Qualsiasi cosa tu faccia a livello relativo porta un effetto. Mangi cibo avariato e hai mal di pancia. Questo, in estrema sintesi e semplicità, sta alla base del concetto di karma. Ma attenzione, non è una punizione ma una conseguenza. La natura non punisce, sei tu che lo fai con le conseguenze delle azioni negative che hai scelto di compiere. Per questo bisogna pensare attentamente a quello che si fa, cercando di non andare mai a nuocere agli altri e contro le leggi di natura. Solo così l’equilibrio viene rispettato e si raccoglie un buon karma. Anche il karma, comunque, è collegato allo stress. Lo stress produce pensieri negativi, che producono azioni negative, che a loro volta producono karma negativo. L’eliminazione di stress, al contrario, produce pensieri positivi e quindi azioni positive e di conseguenza buon karma. È molto semplice.

6- Troppo spesso ignoriamo l’universale legge dell’amore e questo mette a rischio la nostra stessa vita e quella del pianeta che condividiamo.

Per il vecchio countryman è quindi necessario accordarsi alle leggi dell’universo, abbracciare e rispettare il mondo e tutti gli esseri viventi per crescere insieme. Non deturpare l’ambiente, non sacrificare il mansueto ciclo della natura in nome del profitto, essere attenti alle necessità del pianeta e di tutti gli esseri viventi. Il che porta al punto successivo, fra quelli nodali espressi da Nelson.

7 – Fare agli altri quello che vorremmo fosse fatto a noi stessi.

Questa buona regola è addirittura il comandamento più importante per i cristiani ma è presente in ogni religione. È una regola di comportamento che dovrebbe essere alla base della nostra vita.

8- Tutta la vita sulla terra è connessa l’una all’altra e c’è valore e bellezza in ogni cosa.

Come insegna il tao non c’è separazione, l’altro e parte di te e viceversa. Accettiamolo e saremo liberi e decisamente più propensi a perseguire il bene comune e a volare bassi con i voli pindarici del nostro stupido ego.

9 – È importante essere se stessi in barba alla così detta normalità. Non esistono persone normali, ci siamo solo io e te.

Accettarsi, perdonarsi, amarsi e andare avanti. Non c’è niente che non va in te, non c’è niente che non va in me. E la normalità? Ti starai chiedendo. E chi l’ha mai vista?

Infine la regola più importante, che li riassume un po’ tutte. Secondo Willie seguire la via del Tao significa vivere in armonia con se stessi, il mondo e tutte le creature che lo abitano nel pieno momento presente.

D’altronde questo vecchio cowboy con il sangue indiano che guarda all’oriente lo ripete ad ogni intervista: “Io davvero, più o meno, vivo un giorno alla volta”.

1. Il Mio Amico Arnold, Una Serie Maledetta…

di Federico Traversa

C’è una vecchia canzone di Fabri Fibra dedicata a un personaggio che i suoi giovani fan quasi certamente nemmeno sanno chi sia: Gary Coleman. Il rapper la scrisse probabilmente ispirato dai lavori di Zibe, un writer svizzero che, agli inizi degli anni zero, cominciò a ritrarre la faccia paffuta dell’attore afroamericano sui muri di tante città.

Per quelli che, invece, erano adolescenti nei primi anni ottanta, la storia è completamente diversa e quel nome e quel musetto suscitano ricordi dolci e divertenti. Nelle neonate tv private iniziavano a comparire le prime sit-com americane e quella interpretata dal piccolo Gary Coleman piaceva un po’ a tutti: grandi e piccini.

Si intitolava “Il Mio Amico Arnold” (“Different Strokes” il titolo originale americano) e trattava la vita di Arnold e Willis Jackson, due ragazzini afroamericani di Harlem rimasti orfani e adottati dal signor Philip Drummond, un benestante bianco che li nutriva di affetto e amore.

A interpretare Arnold era l’attore Gary Coleman, una vera forza della natura, con i suoi occhioni grandi, le guanciotte rotonde, le labbra perennemente imbronciate e una simpatia contagiosa.

Willis era invece interpretato da Todd Bridges, perfetto nella parte del fratello maggiore serio e responsabile.

La parte del ricco e amorevole padre adottivo bianco venne invece affidata a Conrad Bain, attore canadese naturalizzato americano con una lunghissima esperienza teatrale e televisiva alle spalle.

A completare il cast fisso della prima stagione c’erano la figlia naturale di Drummond, Kymberly (interpretata dalla bionda quattordicenne Dana Plato) e Edna Garrett, la governante della casa, nelle fattezze della bravissima attrice e cantante statunitense Charlotte Rae.

La serie venne proposta dall’emittente NBC, in un disperato tentativo di recuperare consensi nella fascia preserale, ormai da anni in mano alla ABC e al suo cavallo di punta: Happy Days.

I due ideatori della serie, Jeff Harris e Bernie Kukof, percepirono prima degli altri come l’America fosse pronta a una sit-com interrazziale che per la prima volta incentrasse le sue vicissitudini su una famiglia mista. I due per mesi pensarono e ripensarono a un plot efficace e a un possibile protagonista principale per il telefilm, fin quando Kukof non vide in alcune pubblicità il broncio tenero di Gary Coleman.

La serie aveva trovato il suo protagonista principale.

Gary Coleman

Quando iniziano le riprese di “Il Mio Amico Arnold”, Coleman è un bambino di dieci anni gioioso, ridanciano e particolarmente basso. Meglio così, pensano alla NBC sembrerà ancora più piccolo.

In realtà Gary è un po’ troppo piccolo per la sua età e non perché sia di poco appetito o in ritardo con la crescita. C’è di più, c’è una malattia grave, gravissima, che lo affligge dalla nascita.

Il bambino, figlio di una senzatetto di Chicago, viene adottato poche settimane dopo la nascita da una giovane coppia di colore di Chicago: Edmonia Sue, professione infermiera, e W.G. Coleman, ascensorista.

Poco prima del raggiungimento dei due anni la malattia congenita manifesta i primi disturbi e gli viene diagnosticata come fosse una sentenza: atrofia renale.

Per vivere, il piccolo Gary, dovrà sottoporsi a dialisi per tutta la vita e sperare in un trapianto di reni non appena avrà raggiunto un’età sufficiente a limitare il pericolo di rigetto. Atrofia renale vuol dire pure che lui non crescerà come tutti gli altri bambini ma rimarrà piccolo, molto piccolo. Non più di un metro e quaranta al massimo. Ma di questo, per il momento, la NBC decide di non farne parola con nessuno. E tanto meno i genitori.

Il bambino è una vera forza della natura, una miniera d’oro. L’emittente per interpretare Arnold gli offre sedicimila dollari a puntata! Siamo nel 1978 e quelli sono soldi. Tanti soldi.

W.G. si licenzia subito dal lavoro per seguire direttamente la carriera del figlio e amministrarne il nascente patrimonio. Dopo anni a spaccarsi la schiena su un montacarichi finalmente potrà vivere da signore, come uno importante. E poi il denaro servirà a garantire le migliori cure per Gary, cosa può esserci di sbagliato in questo?

Nonostante in molti all’interno della rete siano scettici sul progetto Different Strokes, l’intuizione del telefilm si rivela vincente e il successo enorme: 25% di share nel preserale e il pubblico incollato davanti alla tv su il canale NBC come non si vedeva da anni. E questo contro il ditone del mitico Fonzie di Happy Days!

Gary Coleman diventa una star indiscussa, l’America lo adotta come il nipotino spassoso della porta accanto e l’attenzione mediatica su di lui diventa febbrile. Interviste, ospitate televisive, articoli sui giornali, film a low budget per il nascente mercato home video, e il lavoro in studio sei giorni su sette.

Il cachet velocemente sale ma l’entusiasmo e la felicità, altrettanto velocemente, scemano.

Gary è pur sempre un bambino di dieci anni che avrebbe voglia di giocare, ridere e trascorrere il tempo libero con i coetanei. Ma questo non gli è concesso: quando sei una star che incolla al televisore milioni di americani il giro di soldi attorno al tuo nome tocca picchi vertiginosi. E chi si ferma è perduto, non è questa la regola del capitalismo selvaggio su cui beatamente si specchia l’America reganiana? Crescita, crescita, crescita. Per aumentare l’introito, per fare più soldi, per fiaccare e uccidere la concorrenza finché ne hai la possibilità. Non importa se sei solo un bambino.

Ma Gary non è un bambino normale, ricordate? È malato, molto malato. Si stanca più velocemente degli altri, ha le difese immunitarie più basse del normale e si ammala di niente.

Alla terza stagione appare già spossato, si becca una polmonite dietro l’altra, vomita in continuazione e i medici dicono che il trapianto ora è necessario.

I genitori chiedono di limitare le apparizioni del giovane attore ma l’emittente ribatte che Gary non può fermarsi in questo momento, sarebbe una follia. Per convincere W.G. ed Edmonia il compenso dell’attore passa a 350 mila dollari a episodio!

Nonostante la logica consiglierebbe di dare un taglio alle mille attività in cui è coinvolto e concedergli un lungo periodo di riposo per rilassarsi e ricevere le migliori cure mediche, i genitori accettano l’offerta.

Ancora una volta i soldi sembrano valere più della logica.

Si va avanti, la serie va avanti, anche se Gary sta male ed è profondamente infelice.

All’inizio della sesta stagione l’attore ha ormai quindici anni e la sua prospettiva è cambiata. Sta crescendo, ha superato la pubertà e, come tutti a quell’età, non si sente più un bambino ma un adolescente lanciato verso l’età adulta. Vorrebbe cambiare il suo personaggio, farlo raffrontare con tematiche più in linea con la sua età, senza terminare ogni episodio in braccio a Conrad Bain con il viso imbronciato e il solito tormentone che lo ha reo famoso: “Che diavolo stai dicendo, Willis?” (“ What’chu talkin’ ‘bout, Willis?” nell’originale americano).

Ragioni legittime a quindici anni compiuti. Peccato che in televisione non importa essere veri, conta decisamente di più essere verosimili. E Gary verosimilmente dimostra a malapena dieci anni, e così viene proposto al pubblico.

La frustrazione aumenta. E pure i problemi di salute.

Durante la settima stagione l’attore si sente male sul set e viene ricoverato d’urgenza e sottoposto a un lungo ciclo di dialisi.

I dottori gli prescrivono un lungo periodo di riposo. Gary vorrebbe lasciare la serie e tornare a casa ma il padre si oppone strenuamente all’idea. Gli dice che deve sacrificarsi per la famiglia, stringere i denti e non voltare le spalle alla fortuna. Fa leva sul senso di responsabilità del figlio ammalato e alla fine ottiene che Gary torni a recitare la parte di Arnold.

Nel frattempo viene trovato un rene compatibile e l’attore è sottoposto a trapianto. Sembra la fine di un brutto sogno, invece è soltanto l’inizio soft di incubo. Il trapianto non funziona, Gary rigetta il rene e torna a star male come e più di prima.

E intanto le riprese vanno avanti.

Il pubblico, si sa, è per sua natura capriccioso e alla lunga si stufa di tutto. Soprattutto delle cose che rimangono sempre troppo uguali a se stesse. Come “Different Strokes”. Già da un paio di stagioni la frizzante verve delle serie poco alla volta si è annacquata e il telefilm è diventato ripetitivo.

Gli ascolti calano, calano parecchio, tanto che, nella primavera del 1985, la NBC cancella il telefilm dai propri palinsesti al termine della settima stagione.

Tuttavia, la serie fa ancora gola, così come il nome di Gary Coleman, e l’emittente rivale ABC decide di produrre un’ottava stagione di “Different Strokes” da mandare in onda il venerdì sera.

Coleman non vorrebbe prendervi parte, l’insuccesso del trapianto e la conseguente crisi di rigetto ne hanno fiaccato lo spirito e il corpo. E poi non ne può più di interpretare la parte di Arnold Jackson, il bambino nero che non cresce e rimane sempre uguale a se stesso.

Litiga con i co-protagonisti della serie, urla che vuole tornare a casa, sbraita al mondo che non ne può più, soffre e piange ma, alla fine, è ancora costretto a piegarsi: interpreterà ancora Arnold nell’ottava stagione prodotta e trasmessa dalla ABC.

La serie però è ormai spremuta e, nonostante il cambio di palinsesto, gli ascolti continuano a scendere.

Così, dopo 19 episodi, il 30 agosto del 1986, cala il sipario su uno dei telefilm maggiormente seguiti degli anni ottanta.

I signori Coleman, gli attori, il regista e i produttori ne sono distrutti, l’unico a gioire di quello stop come fosse la fine di un brutto sogno è Gary, che accoglie la notizia a braccia alzate, correndo felice per gli studio come se avesse segnato un gol.

Finito il personaggio di Arnold, auspica per lui un po’ di tranquillità, una vita serena, nuovi progetti artistici su cui lavorare, l’inizio di una nuova vita e di una nuova carriera. Purtroppo, il giovane uomo che non cresce, ancora non sa che quando la macchina del music biz ti trita, è molto difficile rimettere assieme i tuoi pezzi.

In pochi mesi la difficile storia personale di Gary Coleman assumerà le fattezze di una tragedia greca.

La prima batosta è di natura professionale. Gary era convinto che, non appena smesso il personaggio di Arnold, le offerte sarebbero fioccate come neve e che lui avrebbe trascorso le giornate a scegliere fra vari copioni con allegati assegni a tanti zeri.

Ma nulla di questo accade. A Coleman è successa la cosa più terribile che possa capitare ad un attore: rimanere intrappolato nella sua parte più famosa.

Per i produttori, per i registi e per i media stessi, la sua figura è indissolubilmente legata ad Arnold e, per quanto barbaro possa sembrare, la carriera professionale di Gary muore insieme al suo personaggio nel telefilm.

Nei quattro anni successivi alla fine della serie, al di là di qualche cameo o ospitata in qualche altro telefilm, Coleman di fatto non lavora. Il conto in banca si assottiglia e in breve tempo il giovane miliardario si ritrova a secco. Sembra impossibile che abbia speso così tanto, eppure i conti non mentono. O forse sì, perché quando l’attore ormai maggiorenne mette il naso nel suo patrimonio in caduta libera, scopre che a fregarlo sono state le ultime persone da cui se lo sarebbe aspettato: i suoi genitori. Il padre, in particolare, si eroga un doppio stipendio faraonico ogni mese, sia come presidente della società che fa capo all’attore che come manager dell’attore stesso. E pure la madre non disdegna un ricco compenso più annessa percentuale. Alla fine, fra famigliari, manager e collaboratori, risulta che è proprio Gary quello a pagare più tasse allo stato ma a guadagnare meno di tutti.

Il giovane si sente tradito. Schiuma di rabbia e delusione. Licenzia il padre e, nel 1989, lo porta in tribunale, chiedendo circa quattro milioni di dollari di risarcimento. Ne otterrà circa un terzo al termine della disputa legale, cinque anni dopo.

Nel frattempo deve tirare la cinghia, sperare in qualche nuovo ingaggio e sopravvivere. Cosa non facile se sei costretto settimanalmente alla dialisi in un paese dove fino a pochi anni fa non esisteva alcuna assistenza sanitaria. Coleman è costretto ad accettare quasi qualsiasi proposta. Lavora come d.j. in una piccola radio di Denver, partecipa ad altri cameo, ma di proposte concrete non ne arrivano e le spese mediche continuano ad aumentare.

Il giovane paffutello che solo pochi anni prima commuoveva e divertiva l’America sta morendo di fame e ha i reni malati ma a nessuno sembra fregare qualcosa.

In un’intervista concessa a una televisione americana nel 1993 confessa di aver tentano il suicidio per ben due volte. La notizia incuriosisce tutti ma non impietosisce nessuno, visto che a Coleman nuove offerte di lavoro non ne arrivano.

Per qualche anno si perdono le sue tracce, la televisione cambia e gli eroi delle sit com anni ottanta finiscono nel dimenticatoio.

Poi, un servizio andato in onda sui tg americani nel 1998, torna a parlare di Gary, mostrando l’ex interprete di Arnold in divisa da guardia giurata presso un grande magazzino. È questo il suo lavoro ora, ed è pure accusato di aver malmenato una donna che avendolo riconosciuto l’ha schernito per la brutta fine che ha fatto.

Seguono anni duri, durissimi. Gary si trasferisce a Santaquin, una piccola cittadina a sud di Sout Lake City, nello Utah. Qui, lentamente, prova a rimettere in sesto la propria vita e la propria carriera. Tante ospitate in programmi nostalgici, sullo stile del nostro Matricole e Meteore, partecipazioni a video musicali (N’Sync, Kid, Rock, Moby e John Cena) e ruoli secondari in b-movie e telefilm.

Nel 2006, sul set della commedia Church Ball – dove interpreta la parte di un giocatore di una scapestrata squadra di basket – incontra la ventiduenne Shannon Price. I due si sposano pochi mesi dopo essersi conosciuti.

Che Coleman abbia finalmente trovato un po’ di serenità? Macché. Nemmeno un anno dopo la coppia si separa, non prima di essere apparsi alla trasmissione Divorce Court, un orribile format americano a cui partecipano coppie che hanno deciso di divorziare per cercare di salvare in diretta televisiva il matrimonio.

Il divorzio ufficiale Coleman e la Price viene sancito nell’agosto del 2008, tuttavia Shannon continua a vivere a casa di Gary nonostante non ne sia più la moglie.

L’attore va avanti con la propria vita ma è sempre più difficile. Si sente frustato, derubato di qualcosa e pieno di rabbia. Si sono presi la sua adolescenza e in cambio gli hanno dato una tragica età adulta, infelice, umiliante e piena di frustrazioni. E allora spesso si lascia andare a vere e proprie esplosioni di rabbia che, immancabilmente, finiscono sui giornali. Come quando, dopo una lite in un parcheggio con un fotografo che lo immortala senza permesso, sale sulla sua auto e lo investe. Nonostante il fotografo riporti soltanto delle escoriazioni superficiali, la notizia fa il giro degli Stati Uniti

Passa qualche mese e ci risiamo: Gary è di nuovo sui giornali. Stavolta per una furiosa lite con l’ex moglie Shannon, che sfocia in un vero e proprio scontro fisico tra i due con tanto di intervento della polizia. Questa volta però l’attore è parte lesa e l’accusa di violenza domestica è a carico dell’ex moglie.

L’anno dopo la scena si ripete ma a parti ribaltate: è Gary ad essere accusato di violenza domestica su Shannon

Siamo ai titoli di coda.

Da tempo la salute dell’attore sta peggiorando. Nel 2009 si è sottoposto a un intervento chirurgico al cuore e durante la riabilitazione post operatoria si è ammalato gravemente di polmonite. L’anno successivo altri due ricoveri per alcuni improvvisi attacchi epilettici, l’ultimo dei quali sul set di Insider, un programma televisivo a cui sta partecipando.

L’agonia per lo sfortunato attore termina qualche mese più tardi – precisamente il 26 maggio del 2010 – quando viene ricoverato d’urgenza all’Utah Valley Regional Medical Center in condizioni critiche.

Secondo quanto riportato da Shannon, l’attore sarebbe caduto dalle scale a seguito forse di un nuovo attacco epilettico e avrebbe battuto violentemente la testa.

L’emorragia è irreversibile e, il giorno dopo, viene dichiarata la morte cerebrale, a seguito della quale si interrompe il mantenimento forzato in vita. E già qui si apre un caso: secondo l’avvocato dell’attore, Randy Kester, non è chiaro chi abbia dato l’autorizzazione a spegnere le macchine che tenevano artificialmente in vita Coleman. Probabilmente la moglie, anche se ora sorge il dubbio che la donna non ne avesse facoltà, visto che i due erano divorziati.

La Price, comunque, riesce a guadagnare anche su questa triste dipartita, vendendo ai tabloid le foto dell’attore in coma, sdraiato nel letto d’ospedale e completamente intubato.

Un atto triste, tristissimo, l’ultimo dispetto a Gary Coleman, un piccolo uomo malato sul cui corpo, in periodi diversi della vita, a turno hanno pasteggiato con morsi avidi le persone che dovevano averne più a cuore la salute: i genitori e la moglie.

Un attore a cui doveva molto anche la rete NBC, che sul finire degli anni settanta venne salvato da una gravissima crisi d’ascolti dalla guance paffute e dai labbroni imbronciati di un bambino di nemmeno dieci anni malato ai reni.

Un bambino a cui non è stato concesso di diventare uomo, morto a poco più di 42 anni praticamente solo, malato e al verde.

Se questa non è una storia di scandaloso abuso su un minore, non so quale lo sia.

Delle tristi vicende della povera Kimberly (Dana Plato) e di Willis (Todd Bridges) vi parlerò un’altra volta e no, non sarà un bel viaggio. D’altronde, come recita il titolo, questa è una serie maledetta.

Rockin’ in a free world – L’arte di NON lasciarsi condizionare, nella musica come nella vita

(di Federico Traversa)

Ci mandano a scuola e ci riempiono la testa di regole. Regole di comportamento, di etica, di approccio alla vita. Man mano che cresciamo sembra che la nostra vita sia scandita da tante piccole tappe in attesa del gran premio finale. Peccato che non ci sia nessun premio a fine corsa, anzi. Oggi il let motiv è più o meno questo: studia almeno fino alla laurea però divertiti. E non ti istruire troppo perché conoscere tante cose serve solo per ottenere un pezzo di carta che ti faccia trovare il lavoro che ti paga di più facendo meno. Fai esperienze ma non troppo approfondite sennò rischi di distrarti. Un po’ viaggia perché vedere il mondo è importante ma poi trovati un posto il più possibile fisso. Schiaccia tutto e tutti per conquistarti una posizione di prestigio, intanto in giro c’è pieno di stronzi. Quando sei sistemato accasati e fai dei figli ma senza fretta, la posizione deve venire prima; e poco importa se i tuoi bambini avranno genitori che sembreranno giovani nonni. Continua a lavorare come un pazzo e a schiacciare tutto e tutti perché il fatto di avere una famiglia giustifica ancora di più il tuo essere una merda. Gioca a calcetto oppure vai in palestra sennò ti stressi troppo e il fisico a una certa età ha bisogno di muoversi. Siccome sport e hobby non bastano, bevi, scassati di cibo spazzatura, prendi psicofarmaci così il sintomo sparisce, però ricorda di non indagare sul motivo di quell’ansia, altrimenti rischieresti di dover pensare in autonomia e affrontare verità capaci di mettere in discussione ogni scelta che hai fatto e la società in cui vivi. Ogni volta che con la famiglia o con gli amici ti capita qualcosa di vagamente carino o interessante fotografala e mettila in rete, in modo da non sentirti diverso da tutti i tuoi contatti che sembrano non avere una preoccupazione al mondo, vivere una vita meravigliosa e vedere un sacco di cose interessanti. E poi trovati un hobby strano, tipo sputo del nocciolo di pesca, anche quello da condividere sui social. Diventa un mago di nuove tecnologie per non sentirti vecchio. Guarda con superiorità i derelitti del mondo ripetendoti ossessivamente che tu sei diverso, hai una marcia in più e a te non capiterà. Nelle giornate in cui ti senti più figo del solito scrivi alle vecchie compagne di scuola rintracciate su facebook, oggi madri separate di mezz’età, cercando di sedurle e sentirti così quel gran sciupafemmine che eri in passato. Evita quanti più tumori e infarti possibile. Non pensare mai alla pensione perché intanto non ti spetta e poi la società ha fatto in modo di farti credere che in pensione vanno solo i super vecchi e tu non lo sei né ambisci a diventarlo.

Ah, e ricorda di non farti troppe domande sulla vita e il suo senso: potresti realizzare di essere stato per settant’anni su un rullo costruito da altri, senza possibilità di muoverti, e di essere arrivato a fine corsa. E lo so, lo so… è agghiacciante.

Per questo credo dovrebbe essere insindacabile diritto di tutti scegliere in libertà il proprio percorso, seguendo sogni, ambizioni e turbamenti personali. Andandosi magari a cercare sentieri poco battuti per conquistare nuovi modi di attraversare questo strano gioco chiamato vita. Peccato che il sistema di paure e condizionamenti conosciuto col nome di società (e anche religione) non lo permetta e isoli, sputtani e tiranneggi chiunque tenti vie di diverse. Oppure faccia di peggio, inglobando e appiattendo le voci dissonanti fino a renderle parte dello status quo.

Il rock, nel suo piccolo, è stato un esempio di questo modus operandi. Nato da un giovanile desiderio di cambiamento e voglioso di rompere le catene della buona borghesia è presto divampato diventando qualcosa di grande, capace di spingere i ragazzi a mettere in dubbio l’ordine costituito e a tentare scelte diverse. Pensate alla forza delle canzoni di protesta del primo Bob Dylan, della bella Joan Baez e di tanti altri musicisti impegnati. Oppure ai mega concerti, da Woodstock all’Isola di Wight, che portarono folle oceaniche di ragazzi a ballare mezzi nudi sotto le stelle all’urlo di peace and love. Giusto o sbagliato che fosse, il rock degli inizi ambiva a un cambiamento, un nuovo modo di vedere le cose.

Il sistema l’ha capito quasi subito, ha realizzato che non poteva reprimerlo e concluso che fosse molto meglio comprarselo e controllarlo. E l’ha fatto. Ha anabolizzato il rock con drogaggi vari e denaro sonante, si è comprato gli artisti e incanalato il movimento verso il puro business e il semplice intrattenimento. E ciao ciao rivoluzione.

Ma non voglio concentrarmi su questo, sarebbe inutile, quanto sull’orgoglio di fare scelte diverse, controcorrente e nuove. Sui pionieri e le eccezioni, quelli che con coraggio hanno aperto nuovi sentieri per attraversare la montagna. E il nostro mondo di esempi così ne è pieno.

Dove sarebbe il nostro amato rock n’roll se un ragazzo nero un po’ incazzoso di nome Chuck Barry non avesse deciso di mescolare il blues del Mississippi con una specie di country velocizzato? Per poi portare sul palco questo nuovo suono con performance adrenaliniche per l’epoca, fra assoli di chitarra elettrici e duck walk indiavolate?

Quante possibilità di affermarsi aveva un certo Elvis Presley quando decise di suonare la propria musica ancheggiando come un nero in un mondo dominato dai bianchi? E invece prima fece scalpore, poi si urlò allo scandalo e infine arrivò il successo. E niente nella musica fu più come prima.

Quale percentuale di successo avreste dato a un gruppo giamaicano che suonava musica in levare – e inneggiava a un re africano ritenendolo Gesù Cristo nella sua seconda venuta – di sfondare fra il pubblico rock dei bianchi della seconda metà degli anni settanta? Eppure Chris Blackwell, capoccia della Island, decise che quel Bob Marley con i suoi Wailers meritasse una possibilità. E a chi gli diceva che la musica caraibica era un suono da compilation e che nessuno avrebbe preso sul serio i Wailers, lui scrollava le spalle e rispondeva: “Li promuoveremo in modo nuovo, percorrendo strade che nessuno ha mai percorso”. Ed ebbe dannatamente ragione lui.

Negli anni novanta i rapper bianchi, dopo il flop di Vanilla Ice, non venivano presi sul serio da nessuno e se provavi a fare hip hop il minimo che potevi aspettarti era una bottigliata in testa. Quante possibilità aveva di farcela, essere accettato veramente dalla scena e ottenere un contratto discografico un ragazzino smunto dagli occhi azzurri, già padre di una bimba e che viveva in una scalcinata roulotte nei sobborghi di Detroit? Nessuna, vero? E invece Marshall Matters in arte Eminem ha fatto di più, non solo ottenendo un contratto milionario e il rispetto della scena ma diventando pure uno dei rapper più famosi e venduti di tutti i tempi, con uno stile suo e un modo di promuoversi completamente nuovo, lontano anni luce dai sentieri battuti in precedenza.

E avreste scommesso un penny che una ragazza ebrea dell’east side di Londra, piena di tatuaggi, con i capelli pettinati da black diva anni sessanta e un attrazione irresistibile verso gli eccessi, sarebbe diventata la nuova regina del soul-jazz? Eppure Amy Winehouse nella sua breve vita lo fece, percorrendo la propria scalata al successo in modo totalmente personale.

Potrei citare centinaia di esempi per spiegare un solo e semplice concetto: non dobbiamo prendere per buono quello che fanno gli altri ma cercare prima di capire se va bene per noi, e se non lo sentiamo aderire alla nostra pelle non dobbiamo avere paura di osare e tentare qualcosa di diverso, che pochi o nessuno ha sperimentato prima. E questo vale in tutti i campi. È così che il genere umano compie i suoi balzi evolutivi, grazie a i pionieri, a quelli che le cose provano a farle a modo loro.

Pensiamo diversamente, non anchilosiamo la nostra mente. Recenti studi neurologici affermano che la fisiologia del cervello cambia, migliora e si rinnova quando ci mettiamo a fare o a pensare di fare cose completamente nuove. Nascono nuove sinapsi, collegamenti e la nostra creatività si impenna.

Guai ad accettare quello che ci viene raccontato senza prima capirlo.

L’unica cosa che dobbiamo alla vita è viverla nel modo più aderente possibile a quello che siamo. E per tutto il resto… pump up the volume!