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Un musicista dall’alto livello di figaggine: elogio a John Taylor e al suo impeccabile stile

di Federico Traversa

Ieri sera dopo cena, io e mia moglie siamo finiti a cantare a squarciagola Wild Boys dei Duran Duran, una performance a cappella di quasi dieci minuti per la gioia dei nostri figli, Leonardo e Alessandro, che ballavano come matti divertendosi alla grande.

Perché mai è successo? Colpa di Maurizio Becker, capo redattore di Classic Rock Italia, che sul suo profilo facebook ha postato una foto di qualche anno fa dei Duran Duran in barca a Venezia.

Cristo, John è sempre un figo, ho detto io.

Io preferivo di gran lunga Le Bon, ha replicato mia moglie che – come avrete certamente intuito vedendo chi ha sposato – di uomini capisce poco e male.

A quel punto mi sono inalberato: stavamo parlando del bassista dei Duran Duran, indiscutibilmente il musicista più bello, stiloso e cool degli anni Ottanta e probabilmente anche dopo, almeno fino all’arrivo di Chris Cornell.

Non ho detto il più bravo, quindi non scaldatevi.

Sì lo so, allora le ragazze scrivevano libri su come riuscire a sposare Simon Le Bon, si strappavano i capelli per George Michael e Nick Kamen, per non parlare degli sbalzi ormonali nel vedere l’immenso Nikki Sixx a torso nudo suonare il suo basso opuure Bret Michaels dei Poison intonare quella specie di metal appiccicoso come un big bubble. Per non parlare di Morten Harket degli Ha-ha, che sussurrava di “prenderlo” nella celebre Take on Me, e non dimentichiamo gli occhi languidi e i riccioli biondi di Joey Tempest degli Europe. Tutto vero, niente da dire. Ma figo tout court come John Taylor non lo è mai stato nessuno. Lui, i suoi capelli scalati col ciuffo, lo spolverino aperto, la camicia sbottonata, lo sguardo torvo, il basso imbracciato con assoluta naturalezza.

Lo amavamo anche noi maschi etero, perché da uno come John c’era solo da imparare. Per come vestiva, per come camminava, per le donne bellissime a cui si accompagnava, a partire dalla super top model Renee Simonsen fino alla biondissima Patsy Kensit, senza considerare la lunga serie di altre bellissime fanciulle.

Musicalmente, per quanto i Duran Duran non fossero esattamente dei fulmini di guerra – seppure il tempo li abbia poi parzialmente rivalutati – lui se la cavava più che bene. Assai ispirato da un punto di vista compositivo, oltre agli album con i DD e i Power Station, restano una manciata di dischi solisti, di cui alcuni davvero pregevoli, a testimoniarlo.

John è sempre stato una sicurezza anche sul palco, e se non ci credete andate a sentire come pestava “live” quando militava nei Neurotic Outsiders, il super gruppo targato anni Novanta messo su con Duff McKagan, Matt Sorum e Steve Jones.

Infine, sorpresa delle sorprese, bravo persino con la penna. Il suo libro – In ThePleasure Groove – non sarà la miglior autobiografia del mondo per quel che riguarda i contenuti ma è certamente notevole per lo stile con cui è stata scritta, e pare che il nostro ci abbia messo molto del suo.

Super cool anche quando, qualche mese fa, ha annunciato via social di aver sconfitto il Covid, consigliando a tutti di non prendere il virus sottogamba e fare attenzione.

Oggi, quel ragazzo nato a Birmingham il 20 giugno del 1960, ha superato la boa dei sessant’anni, da tempo vive in California con la moglie di lunga data, la stilista Vela Nash, è tornato da qualche anno con i Duran Duran e se la gode alla grandissima. L’ultimo disco della band – Paper Gods uscito nel 2015 – è stato un successo quasi inatteso, con show sold out in tutto il mondo.

Inutile aggiungere che Mr Taylor è sempre un gran figo, come al solito.

Questo, più o meno, stavo spiegando a mia moglie ieri sera ma lei mi ha fatto la linguaccia.

Se vuoi vedere uno davvero insuperabile vatti a cercare le foto d’epoca del cantante dei Bauhaus, non c’è paragone.

A quel punto – fermo restando il mio assoluto rispetto nei confronti di Peter Murphy – ho aperto la finestra per far uscire la castroneria vomitata dalla splendida donna che mi ha reso due volte padre e, come posseduto dallo spirito vendicativo del Telegattone, ho intonato Wild Boys, prima sottovoce e poi a squarciagola, con tutto il fiato che avevo in corpo.

Preso in contropiede dalla raffinata bellezza del mio groove, lei mi è venuta dietro.

E a ruota i bambini. Mancava solo Maurizio Seimandi ad annunciare Superclassifica Show e si era tornati all’anno di grazia 1984.

E niente, amici, in questo difficilissimo e assai bastardo 2020, nella mia disfunzionale famiglia succede anche questo.

Flavio Gaggero – La Grande Anima di questa città

di Federico Traversa

C’è un personaggio nella tradizione zen che si chiama Hotei ed è una specie di grasso Babbo Natale senza la barba. Lo avrete visto sicuramente nelle tante statuette che lo raffigurano, molti credono erroneamente sia il Buddha.

Pelato, sempre sorridente, ha un rosario al collo e un borsa a tracolla che non si svuota mai, con cui nutre i poveri e i bisognosi.

Pare che la sua figura derivi da un monaco Chan di grande bontà, di nome Qìcǐ ma conosciuto come Maitreya, che visse intorno al 500 d.C. sotto la dinastia Liang.

Altre fonti lo pongono invece in India; il suo nome era Angida, un abile cacciatore di serpenti dal cuore d’oro: dopo averli catturati toglieva loro il veleno per evitare che mordessero i passanti e poi li liberava.

Sia quel che sia, oggi Hotei è una figura leggendaria e rappresenta prosperità, generosità e amore.

Nella tradizione zen si dice che possa cavar fuori dalla sua borsa tutto quello che serve per aiutare le persone che incontra.

Sei un assettato? Lui ti sorride e tira fuori una bottiglia d’acqua.

Sei arrabbiato perché ti si è bucata una gomma della macchina? Ecco che dalla borsa esce dello spray per ripararla.

Hotei è quello che nel buddhismo viene definito un bodhisattva, cioè una persona che spinta dalla compassione sceglie di lavorare per l’illuminazione e il bene di tutti gli esseri viventi. Lui è tra noi per servire e non per essere servito.

Flavio Gaggero di mestiere fa il dentista, è un cristiano praticante e di buddhismo credo sappia molto poco, eppure è forse la persona più simile a Hotei che abbia mai incontrato.

Sempre allegro, sorridente, felice, se gli chiedi come va risponde immancabilmente: “Bene, anzi benissimo”, perché la vita per lui è un regalo del buon Dio e il solo fatto di esserci va salutato con gioia, figurarsi poi se si è nati nella parte fortunata del mondo.

In quasi quarant’anni che lo conosco non l’ho mai visto arrabbiato, pensieroso, oppure triste. Persino quando ha avuto problemi di salute importanti il suo bellissimo sorriso non l’ha mai abbandonato.

A 84 anni suonati lavora ancora 12 ore al giorno curando gratuitamente migranti, senzatetto, indigenti, anziani con la pensione sociale, chiunque abbia bisogno insomma. Tutti i poveri cristi in difficoltà che hanno mal di denti ma non possono permettersi l’intervento di qualcuno che glielo faccia passare da lui trovano ristoro.

Ma non pensate a un dentista terzomondista costretto a raffrontarsi solo con pazienti vittime del giogo della brutalità sociale; dal buon vecchio Flavio transitano così tante bocche importanti che i media si sono spesso occupati di lui definendolo, con poca fantasia, “il dentista dei vip”.

Da Renzo Piano a Gino Paoli, passando per Beppe Grillo, Ornella Vanoni e le buone anime di Don Gallo e Paolo Villaggio, quello studio ha visto davvero di tutto.

L’unica differenza fra i pazienti è che se sei ricco e famoso paghi l’otturazione, mentre se sei una persona in difficoltà non solo non paghi il lavoro, ma probabilmente esci dallo studio con il portafoglio un po’ più pesante, merito delle corpose donazioni di questo Hotei col trapano in mano, che se non ci fosse andrebbe inventato.

Ho iniziato a frequentarlo da piccolo, bambino pauroso con i denti storti, per poi ritrovarmelo durante i miei anni di collaborazione con Don Gallo e la Comunità San Benedetto al Porto. Oggi Flavio, a cui da qualche anno sono finalmente riuscito a dare del tu, è l’amico fidato che tende la mano ai “miei migranti”, un gruppo di amici nigeriani in difficoltà che cura gratis appena glielo si chiede, e ai quali a volte riesce persino a trovare qualche lavoretto.

Quando ho saputo della sua candidatura con la Lista Sansa mi ha fatto veramente piacere, Ferruccio non solo è un collega che stimo per le sue inchieste sempre corrosive e interessanti, ma una persona ispirata e seria. E aver offerto questa possibilità a Flavio un gesto che dimostra grande umanità. Perché, parliamoci chiaro, la politica – al netto di competenze, budget, progetti ed idee – ha un disperato bisogno di bontà. Si ho detto bontà. Per far politica davvero efficacemente credo serva avere dentro di sé quel sentimento di empatia che arde come un fuoco sacro, e spinge a perseguire il bene comune. Te ne dovrebbe importare, e tanto, delle persone per fare questo mestiere. Lo ripeto: serve bontà, poi esperienza e infine lungimiranza. Con queste tre caratteristiche quel piccolo indiano che chiamavano Mahatma – che vuol dire grande anima – ha sconfitto gli inglesi senza alzare un dito.

Anche Flavio Gaggero é un mahatma, e spero che la sua elezione possa portare in Regione quella bontà necessaria per sconfiggere tutto l’egoismo, l’indifferenza e l’ignoranza gretta di una politica che per anni se n’è fregata degli altri, e ha pensato solo a far mettere le chiappe al sole agli amici, e agli amici degli amici, condendo il tutto con slogan, propaganda becera e passerelle.

D’altronde, come diceva sempre Don Gallo al suo cardinale, i peccati capitali non sono solo sette ma ne esiste un ottavo, forse il più grave: l’indifferenza.

E Flavio Gaggero, come Don Gallo, Gandhi e il panciuto Hotei, è tutto fuorché indifferente.

Forza, Grande Anima!

Shane MacGowan – cadute e miracoli del santo bevitore dei Pogues

di Federico Traversa

Se Charles Bukowski fosse nato a Dublino e invece di scrivere si fosse gettato a capo fitto nella rivisitazioni accelerate del tradizionale folk irlandese, ci sono buone possibilità che si sarebbe chiamato Shane MacGowan.

Il frontman matto dei Pogues è uno di quei personaggi difficili da raccontare in poche pagine. Parliamo di carne, sangue e whisky che si mescolano nella stessa tazza per la zuppa, un sogno alcolico vestito da poesia che incendia i cuori dei figli del pub da quasi quarant’anni.

Nasce il giorno di Natale del 1957 a Tunbridge Wells, in Inghilterra. I suoi genitori, fieramente Irish, sono lì in vacanza da alcuni parenti. La madre è una cantante/ballerina di musica tradizionale irlandese che fa la modella a Dublino, mentre il padre uno scrittore.

Shane vive in una fattoria della contea di Tipperary, in Irlanda, fino all’età di sei anni, poi la famiglia si trasferisce a Londra.

Nella capitale inglese cresce ribelle e confuso come tutte le persone autentiche.

Nel 1976, dopo aver visto dal vivo i Sex Pistol, entra a far parte della scena punk londinese.

Sempre in quell’anno, mentre assiste a un concerto dei Clash completamente ubriaco, cerca di baciare una ragazza che gli addenta l’orecchio con un morso. Il giovane MacGowan rotola a terra e inizia a perdere sangue. Un giornalista assiste all’accaduto e scatta una foto. Quell’immagine capeggerà sul giornale del giorno dopo sotto al titolo: “Cannibalismo al concerto dei Clash”.

Quando non viene azzannato dalle ragazze ai concerti, Shane lavora in un negozio di dischi, cura una fanzine di sua creazione chiamata Bondage e milita nei Nipple Erectors, un gruppo punk che ha formato con l’amica Shanne Bradley.

Dopo l’uscita del primo singolo King Of The Bop (1976) – prodotto da Stan Brennan, il datore di lavoro di Shane al negozio di dischi – il gruppo cambia nome in The Nips e registra altri tre singoli.

La formazione è tutto fuorché stabile, per un periodo alla batteria siede anche Jon Moss, prima di accasarsi con i Culture Club e vendere milioni di copie insieme a Boy George.

I Nips si sciolgono alla fine del 1980, della loro gloriosa storia resta un album dal vivo, Only The End Of The Beginning, e l’orgoglio di aver aperto gli show di gruppi mitici quali Jam e Clash.

Nello stesso periodo in cui milita nei The Nips, Shane suona la chitarra anche in un altro gruppo punk, The Millwall Chainsaws, in cui si alterna alla voce con Peter Stacy, un tipo tosto originario di Eastbourne che tutti chiamano Spider. E poi ci sono Jem Finer – un amico di Shane che sa suonare banjo, mandolino, sassofono e ghironda – Jamers Fearnley (chitarra) e Andrew Ranken (percussioni). È più o meno questa la formazione, perlomeno dal 1982, perché all’inizio la line up dei The Millwall Chainsaws cambia molte volte, esattamente come il loro nome. Saranno prima i The New Republicans, poi i Pogue Mahone e solo alla fine arriverà il nome della leggenda: The Pogues.

Il loro stile? Una mescola di musica tradizionale irlandese, poesia, folk e rock n’roll, il tutto benedetto da un’attitudine punk ubriaca.

Shane rimane con la band dal 1982 al 1991, realizzando cinque incredibili dischi (Red Rose for Me, Rum, Sodomy and the Lash, If I Should Fall from Grace with God, Peace and Love ed Hell’s Ditch) e due Ep (Poguetry in Motion e Yeah, Yeah, Yeah, Yeah, Yeah), che vendono tantissimo, rivoluzionano il modo di approcciarsi al folk e trasformano i Pogues in un gruppo di culto assoluto.

Il resto lo fa la leggenda di Shane, il cantante perennemente ubriaco che impreca sul palco, vive una vita sregolata e sull’orlo del baratro ma è capace di amare spremendosi il cuore fino all’ultima goccia di vita. Ironico, confuso, passionale, onesto. Un’adorabile testa matta a cui si finisce per perdonare tutto, o quasi.

Ed è così che lo descrive la giovane scrittrice Victoria Mary Clarke in una lunga serie di interviste che poi finiscono nel suo libro A Drink with Shane McGowan. Incontri che si rivelano galeotti visto che i due si mettono insieme, e dopo molti anni di convivenza recentemente hanno addirittura convolato a nozze.

I giorni di Shane con i The Pogues terminano nel novembre 1991 durante un tour in Giappone. La motivazione? Lui è ingestibile, ogni notte un pericolo, un ritardo, la paura che non riesca a raggiungere il palco, senza scordare le rovinose cadute, le facciate per terra, le risse da ubriaco, i denti in bocca sempre di meno e i chili intorno alla vita sempre di più. Eppure quando sale sul palco, la barba lunga, i capelli spettinati, gli occhiali scuri e quella voce penetrante corrosa dall’alcool, l’autore di If I Should Fall From Grace with God è dannatamente vero.

Dopo la sua uscita dal gruppo, seppur intraprendendo un percorso professionale frammentario e accidentato, MacGowan realizza cose pregevoli, spendendosi in duetti e featuring vari – come dimenticare la versione What A Wonderful World di Louis Armstrong realizzata insieme a Nick Cave per il Natale 1992 che è diventata ormai un classico – ma faticando a portare avanti progetti più lunghi e articolati. Tra visioni abbozzate e collaborazioni arriva un disco solista nel 1994 – The Snake, dove appare crocifisso in copertina – e una nuova band per accompagnarlo che ironicamente chiama The Popes. Disco ispirato e sottovaluto, tra l’altro, con uno inaspettato Johnny Depp, grande amico di Shane, a suonare la chitarra in That Woman’s Got Me Drinking, secondo singolo estratto dalla raccolta.

Tre anni dopo arriva un nuovo album con i The Popes, The Crock of Gold, poi basta.

All’inizio del nuovo millennio eccolo tornare con i Pogues per una serie di concerti, che si ripeteranno fedelmente negli anni, ma niente musica nuova.

Shane continua con la sua condotta di vita scapestrata, le esagerazioni e l’amore per il disegno, che ha sempre coltivato al pari della musica.

Alla voce problemi, come dicevamo, il materiale non manca, basti pensare che nel 2001 l’amica Sinead O’ Connor, non esattamente un esempio di condotta monastica, arriva a denunciarlo alla polizia inglese per possesso di eroina nella speranza che l’arresto possa salvarlo dal baratro in cui è precipitato. Qualche anno dopo, passata tanto la scimmia quanto l’incazzatura, Shane la ringrazierà pubblicamente.

In un’intervista di qualche anno fa il cantante ha dichiarato di aver iniziato a bere all’età di cinque anni, quando la sua famiglia gli diede la Guinness per aiutarlo a dormire visto che soffriva d’insonnia, e che suo padre lo portava spesso al pub vicino a casa mentre beveva con i suoi amici.

Anche alla voce dentatura le cose non sono certo migliorate con gli anni. L’ultimo dei suoi denti naturali è caduto, stroncato dalla solitudine, nel 2008. Dopo anni da sdentato, nel 2015 Shane si è finalmente deciso a farsi rimettere in sesto la bocca, sottoponendosi a una procedura di nove ore, con otto impianti in titanio incastonati nelle mascelle più un dente d’oro, quest’ultimo per sfizio. La procedura è stata oggetto di un programma televisivo di un’ora intitolato Shane MacGowan: A Wreck Reborn.

Un antipasto in vista della sobrietà, visto che qualche mese dopo la moglie Victoria Mary Clarke ha rivelato alla stampa che Shane è sobrio “per la prima volta da anni”. La donna ha spiegato che a seguito di un grave attacco di polmonite, aggravato da un infortunio all’anca estremamente doloroso che ha richiesto una lunga permanenza in ospedale, il cantante è stato costretto a smettere di bere. E una volta dimesso ha perseguito con la buona abitudine.

Ma le belle notizie dal mondo del figlio ubriaco d’Irlanda non sono finite qui. Qualche mese fa, all’inizio della pandemia da Coronavirus, è arrivato un annuncio che quasi nessuno si aspettava: Shane sta lavorando a un nuovo disco d’inediti!

A rivelare la notizia è stato l’Irish Sun che ha parlato di un MacGowan in studio con la band dei Cronin, dei fratelli Mick e Johnny Cronin.

Solitamente i cantanti con l’età si ammorbidiscono, ma Shane sta andando esattamente nella direzione opposta, le sue nuove canzoni sono come una tempesta, stavano quasi facendo volare via il tetto dello studio. Shane è ancora punk” ha rivelato Johnny al Sun, aggiungendo che sono state registrate già cinque canzoni.

Se consideriamo che il suo ultimo lavoro in studio con i Popes è del 1997, e l’ultima registrazione è stata la cover per beneficenza I Put a Spell on You incisa insieme a Nick Cave, Bobby Gillespie, Chrissie Hynde, Mick Jones e altri nel 2010, capirete che la notizia ha del clamoroso.

E intanto l’amico Johnny Depp sta producendo un documentario su di lui.

Nel bel mezzo di questo funesto 2020, nonostante sia spesso costretto a muoversi in sedia rotelle per il riacutizzarsi del problema all’anca, Shane MacGowan sembra più vivo che mai. Redivivo aggiungerei.

Vuoi mai che nel centesimo anno dalla nascita di Charles Bukowsi, il suo equivalente musicale torni veramente a noi con qualcosa di nuovo?

Su i calici, allora, ma senza esagerare… che i denti nuovi costano!

“Tartarughe all’Alpe Devero”

di Federico Traversa

Superata una cascata che gocciola il suo rigenerante loop di acqua e rumore, preso atto che raramente mi è capitato di vedere alberi così alti e verdi, sono a un passo dal Devero. Ed ecco Barbara. Pantaloni sbracati, Superga portate al piede tipo sabot, tatuaggi dappertutto, mozzicone spento in bocca, rilassata ai limiti del narcotico, il sorriso bello di qualcuno che veramente adora vedere il sottoscritto e la sua disfunzionale famiglia.

La mia amica è a bordo di una specie di pick up molto roots, su cui starebbe comodamente seduta, mazze comprese, una squadra di hockey.

Mia moglie Daria sale davanti, io mi metto dietro coi topi, che non sono proprio topi ma i nostri 2 bambini Ale e Leo, anche se da come rosicchiano qualunque cosa vai poi a sapere…

Siamo all’Alpe Devero dicevamo, ostile angolo di paradiso nell’estremo Piemonte, a un passo dalla Svizzera, chicca turistica per chi ama scarpinare su in montagna fino a baciare le chiappe del cielo.

Barbara, genovese 100% cresciuta a pane e mare, figlia di un palombaro, sale e onde dentro e fuori dal cuore, ci vive da oltre 30 anni. E non è stato facile. Per chi nasce a uno sputo dal mare, solitamente la montagna è bellissima solo vista da distante.

Eppure “love is the answer”, come cantava qualcuno, e lo è stato anche per lei, che si è innamorata giovanissima di Michele, un insegnante di sci originario del posto dall’altissimo livello di figaggine, e ha scelto di seguirlo fin quassù, gestendo con lui il Rifugio Capanna Castiglioni, fra stufati di cervo, polenta, turisti tedeschi con zaini grossi come un monolocale zona navigli, camere, cameroni e tanta, troppa neve. Per lo meno sei mesi all’anno, perché adesso si sta da Dio, il sole è caldo, il venticello leggero e, mentre percorriamo la piana perdendoci in quel verde pacifico, non ci avvicina un solo problema al mondo.

Un caffè in rifugio, due chiacchiere con Fede, il cuoco argentino dal sorriso di un ammaliante tanghero, e arriva Michele. Quando lo conobbi, ormai quasi 30 anni fa, divenne subito il mio idolo. Arrivò a Genova per una breve visita ai suoceri, con Barbara e la piccola Morgana, che avrà avuto meno di un anno. Rebecca, la loro seconda figlia, sarebbe arrivata tre anni dopo.

Era inverno e tutti noi ci lamentavamo per il freddo pungente e il vento che dal mare spazzava duramente la città. E niente, arriva questo leggendario ragazzo della montagna con cui si è messa Barbara, con i capelli lunghi, gli occhi penetranti, un paio di pantaloni leggeri e… in maniche corte. E se ne gira così per una settimana, a novembre!

Ma non è solo per questo che divenne il mio idolo; al sottoscritto – cresciuto in un ambiente al limite del nichilismo più drogato, in cui eri un figo se bevevi più di tutti, fumavi finché non ti si cuoceva il cervello, ti stordivi fino a un passo dal non ritorno – la cosa che più lo colpì di Michele fu la sua sobrietà. Non fumava, non beveva, non inalava nient’altro che aria, non raccontava storie in cui aveva stupidamente rischiato di morire, non si autodistruggeva disprezzando quell’immenso dono che é la vita come facevano gli altri. Eppure era un super figo.

Per il diciottenne che ero, fu forse il primo modello positivo che vidi da vicino, qualcuno che col suo comportamento mi indicava una strada diversa.

Per questo lo abbraccio forte tutte le volte che lo vedo, come adesso, che me lo trovo scalzo sulla piana, i lunghi capelli sostituiti dalla pelata, un barbone da vichingo a proteggere il viso dal vento, sorridente e forte nonostante la vita gli stia continuando ad alzare l’asticella delle difficoltà.

E sì, anche se oggi sono un papà di 45 anni, quel ragazzo che quasi trent’anni fa girava Genova d’inverno in t-shirt é ancora il mio idolo.

E intanto il tempo rallenta fino a cristallizzarsi, come immancabilmente capita a Devero, dove le strade da seguire sono sempre e solo 2: camminare verso l’alto oppure sedersi a non far nulla, guardando uno dei tanti capolavori di Dio.

Scegliamo la seconda opzione, con i bambini che giocano vicino al ruscello e noi che ci godiamo il sole, lenti e bellissimi.

Daria e Barbara hanno legato tanto ultimamente, mia moglie ha trovato quell’amica più grande e saggia di cui aveva bisogno in questo momento così delicato. Una magia di mio fratello Fabri, che prima di lasciarci ci ha unito indissolubilmente.

Barbara per lui era più di una sorella. Quando ancora sperava di guarire regalò una tartaruga di legno a noi, una a Barbara e un’altra la tenne per sé, col sogno di riunirle un giorno in una grande casa, lontano dalla città, dove avremmo vissuto tutti insieme. Era la sua splendida, bellissima utopia.

Quel maledetto tumore non ce l’ha permesso, ma ora siamo uniti nell’amore vero di chi ci ha amato, tutti sotto la corazza della tartaruga. Ed é come se Fabri fosse sempre con noi. Anzi, levate il probabilmente. È con noi e punto.

E prima o poi le riuniremo quelle tartarughe.

A Devero vengo a sapere di tutte quelle storie mitiche che abitano la zona. Da Don Amedeo Ruscetta, il parroco che maneggiava le vipere a mani nude, le teneva in un bidone in giardino vicino al suo orto e poi le vendeva all’istituto sierologico di Milano per fare l’antidoto. La leggenda dice che era talmente bravo a maneggiarle che non lo mordevano mai.

Posti di streghe, sabba magici, intrugli, sesso promiscuo ad alta quota e sangue d’infante, questi. Leggende davvero sinistre aleggiano qui in giro, anche se mi sa che alla fine, stringi stringi, con la scusa della magia hanno massacrato solo delle povere donne che cercavano di alzare la testa reclamando quei diritti che marcano visita ancora oggi.

Vengo poi a conoscenza dei Walser, nomadi austriaci che popolavano la zona costruendo i villaggi con le loro tipiche case di legno e pietra e, quando il territorio non poteva più sostenere tutti, i giovani si spostavano altrove dando vita ad altri villaggi.

Mi raccontano anche della leggenda di Croveo e del ponte sulla cascata detta “La Caldaia del Diavolo” dove si dice che se ti sporgi troppo arriva il Diavolo con il suo rampino e ti tira giù. Per la cronaca: sono stato a visitare il posto il giorno dopo e mi ha mancato per un pelo. In compenso stava per uccidermi mio figlio Leo, che ha smesso di camminare costringendomi a una salita con lui in braccio da infarto!

E poi incontro il mito dei miti quassù, Tony Galmarini, un alpinista leggendario, che ha scalato montagne con gente tipo Walter Bonatti e, a più di 90 anni, nella zona è una specie di totem sacro.

Tony ha aperto una piccola biblioteca nel casotto dove una volta si vendevano abiti tecnici per la montagna; parlare con lui è un’esperienza appagante per chiunque ricerchi quelle storie mitiche ormai perdute. Se passate di qui, andatelo a cercare.

E mentre Barbara ci riaccompagna alla nostra macchina, con il pomeriggio che si accovaccia sonnacchioso per lasciare posto alla sera, senza pensare troppo alzo lo sguardo verso il cielo perdendomi ad osservare tre nuvole correre velocissime.

Giurerei che abbiano la forma di una tartaruga.

E noi liberi, al sicuro, ancora e sempre sotto il loro guscio.

La libertà in tempi di Covid di Federico Traversa

Non ci sentiamo da un po’, amici, e mi dispiace tanto. La vita negli ultimi mesi mi ha picchiato parecchio, tra la scomparsa del mio adorato fratello e il ricovero in ospedale di mio padre per una duplice rottura di femore, più altre varie ed eventuali, non ho avuto molto tempo per scrivere. Però ho vissuto e mi sono emozionato tanto, nel bene come nel male, e questo alla scrittura fa sempre un gran bene.

Ormai abbiamo superato ferragosto ma mio padre é sempre in ospedale, per la precisione sta facendo riabilitazione in una RSA; negli ultimi 2 mesi mi é stato permesso di vederlo una volta, bardato come uno che fa le pulizie dentro i reattori di Chernobyl, e per non più di 5 minuti.

Colpa del Covid, come al solito. Ci sono stati dei casi nel paese dove é situata la struttura e per precauzione hanno blindato tutto, a partire proprio dalle visite dei parenti; e lo posso capire, visti i trascorsi della malattia nei centri per anziani.

La cosa che invece capisco meno è il nostro comportamento di quest’estate, e lo dico senza polemica ma con un po’ di amarezza. E nemmeno voglio giudicare, sia chiaro, Dio mi scampi dal diventare come quei fenomeni che pontificano su tutto. Mi fa solo male constatare per l’ennesima volta il menefreghismo galoppante che attanaglia la nostra società, stringendola per il collo fino a soffocare quei sentimenti belli che rispondono al nome di altruismo ed empatia. Mi spiego meglio.

Dopo un lockdown che è costato lacrime e sangue, dopo tanti morti e altrettanto dolore, dopo tante rinunce e sacrifici della scorsa primavera, la situazione nel nostro paese stava migliorando e noi, invece di goderci l’insperata estate continuando a fare attenzione – che non vuol dire tutti a casa ma uscire, lavorare, divertirsi e vivere con prudenza – abbiamo azzerato gli ultimi mesi e ripreso a fare festa come se nulla fosse, addirittura volando in vacanza in quei paesi ancora tenuti in scacco dalla pandemia e collaborando a riportare prepotentemente il virus nel nostro paese. È anche i molti rimasti qui in Italia, mascherina al collo tipo sciarpa e serate affollate a ballare appiccicati, di buon senso ne hanno avuto poco.

Ma capiamoci subito: non si diceva di stare chiusi a casa, si chiedeva solo un po’ di attenzione.

Ma noi niente, carnevale di Rio, mojito, apericena, unz unz e happy barbecue. E se salgono i contagi tanto si può sempre dare la colpa a 4 poveri cristi di migranti col covid, d’altronde in Italia li abbiamo sempre usati per quello, come il povero Malausséne di Pennac che veniva pagato per assumersi colpe non sue ed essere insultato dai clienti.

Ok, sorvoliamo e torniamo all’italiano duro e puro che “fanculo il governo io faccio come voglio”.

Ora, se spostamenti all’estero per lavoro o motivi famigliari importanti sono comprensibili, quelli per portare il proprio culo in vacanza non li capisco. Ma se per un’estate ce ne stavamo in Italia cascava il mondo?

E se, rimasti in Italia, ci facevamo vacanze un filo più sobrie evitando di ululare alla luna in mezzo a centinaia di corpi sudati pieni di sangria, era così orribile?

O forse i migliaia di italiani in vacanza sono tutti negazionisti, cioé quelli che dicono che il virus non esiste ed è tutto un imbroglio, di chi non si sa, da Bill Gates ai cinesi passando per Big Pharma ed Apple sono tutti sospettati. Quelli che “la mascherina non la metto, io non voglio museruole, guai a chi tocca la mia libertà”, come se mettersi una mascherina per entrare in posta o al supermercato sia un attentato alla democrazia e non un ottimo suggerimento per proteggere se stessi e gli altri da un virus che, ad oggi, ha ucciso circa 750mila persone.

Certo, può essere che tali morti siano un pochino gonfiate e ci siano finite dentro anche persone decedute per altre patologie e contemporaneamente positive al covid. E allora? Facciamo finta che siano anche, e sto esagerando nel toglierne dal conto, un terzo dei deceduti. Parliamo comunque di 500 mila morti. Ce la fate a immaginare 500mila famiglie distrutte dal dolore?

Ve l’ho detto, ho perso un fratello da poco più di un mese ed è stato come se ci avessero, mi avessero, spellato il cuore da vivo. Immaginare altre 500 mila persone costrette a provare un dolore del genere mi atterrisce, darei tutto per poter risparmiare anche a solo una famiglia quello che ha provato la mia.

Ecco, a fronte di questo mostruoso numero di morti, direi che possiamo mettercela una cazzo di mascherina senza per forza sentirci defraudati della nostra libertà, non credete?

E poi, mi chiedo, ma questa grande libertà con cui tutti ci sciacquiamo la bocca, alla fine che cos’é? Di cosa si tratta? Siamo sicuri di conoscerla? Personalmente cosa esattamente sia, dove inizi o dove finisca non lo so proprio, ma sono certo c’entri davvero poco col mettere o non mettere una mascherina, oppure giudiziosamente scegliere di rimandare una vacanza perché siamo sotto pandemia.

Sospetto inoltre che la vera libertà abiti non fuori ma dentro di noi, e non si raggiunga facendo egoisticamente quello che ci pare ma accettando, comprendendo e ravvivando il nostro sé più profondo. Quando dentro siamo in pace e consapevoli, naturalmente e automaticamente sceglieremo il meglio per noi e per gli altri, camminando inevitabilmente verso il benessere e la libertà.

Quando stai bene con te stesso stai bene con tutti.

È questa la vera libertà.

Tutto il resto é solo rumore di catene che sbattono sulle sbarre…

Buona estate a tutti, amici.

100 anni di Bukowski

Vita e morte di un cavallo vincente

di Federico Traversa

Charles Bukowski, per gli amici il ‘buon vecchio Hank’ avrebbe compiuto oggi 100 anni e, al netto delle birre, credo ci avrebbe scritto sopra una poesia assai poco celebrativa. Come al solito niente sconti, a nessuno, a partire da sé stesso. D’altronde a lui la vita non non ne ha mai fatti. Figlio di una severa donna tedesca, austera e poco propensa all’empatia, e di un sergente americano di origini polacche violento, arrabbiato con la vita e del tutto incapace di trasmettere amore, Buk ha dovuto stringere i pugni e lottare sin da bambino.

Poco affetto e tante botte a casa, ghettizzato a scuola per via di una devastante acne giovanile che lo aveva reso una specie di mostro butterato, si allena a schivare e a resistere ai colpi da subito, come ben scrive in “Panino al Prosciutto” , il romanzo sui suoi turbolenti anni giovanili.

E deve continuare a lottare anche da adulto, quando lascia la casa degli odiati genitori e, perso nella Los Angeles del dopoguerra, inizia a collezionare sbronze, lavori sottopagati, motel di quart’ordine, donne disturbate e rifiuti su rifiuti da parte degli editori. Già perché quelle frustrazioni, quella rabbia, quella voglia di dimostrare a se stesso di essere qualcuno, Hank la sublima scrivendo amari ed ispirati versi, oppure caustici racconti capaci di descrivere meglio di una fotografia quel mondo di ultimi e disadattati che la società perbenista vorrebbe da sempre nascondere sotto il tappeto.
Eppure gli editori non lo considerano, no grazie su no grazie, umiliazioni, speranze tradite. Cambiano i mestieri – leggete “Factotum” se sentite di essere incompresi sul lavoro e poi ne parliamo – le relazioni, i motel, ma non il disperato amore di Hank per la vita.

Arriva il matrimonio con la poetessa texana Barbara Frye, che sposa senza averla mai vista, e che dirige la rivista Harlequin, sulla quale sono state pubblicate alcune sue poesie. E comunque lui l’aveva sempre detto che si sarebbe fatto ammazzare per la scrittura, figurarsi se lo spaventavano delle nozze di convenienza!

Il matrimonio dura meno di due anni, poi Buk é di nuovo in strada, a bere nei bar con quella ciurma di pazzi vagabondi che rappresentano la materia prima con cui plasma le sue storie.

In quegli anni beve talmente tanto da rischiare la pelle e finire in ospedale con un’ulcera perforata, da cui si salva solo grazie all’odiato padre, che gli dona un paio di sacche di sangue e gli regala un’assicurazione.

Nel 1964 Frances Smith, una delle tante donne con cui condivide un pezzo di vita, partorisce Marina Louise, sua figlia. Se con il sesso femminile avrà sempre un rapporto conflittuale – vedi cosa racconta in “Donne”, probabilmente il suo capolavoro – con Marina sarà sempre un padre dolce, affettuoso, capace di sciogliersi.

La bambina però cresce con la madre e non con lui, sempre più perso nel cuore nero della Los Angeles notturna, che prima vive e poi scrive.

Dopo anni di stenti, risse nei bar, scommesse alle corse di cavalli, sbronze, sesso cattivo e un odiato lavoro alle poste, anni in cui non smette un solo giorno di scrivere, Hank ce la fa, poco alla volta ma ce la fa, diventando uno scrittore underground molto conosciuto in città; i suoi racconti e poesie vengono pubblicati sulle principali riviste letterarie, quelle che oggi, nel nostro mondo fatto di smartphone, social e imbecillità non sappiamo più neanche cosa siano, sostituite da… Niente.
Il resto lo fa “Taccuino di un vecchio porco” , una delirante serie di racconti che Buk pubblica a puntate prima sull’Open City di Los Angeles, ennesimo giornale underground dell’epoca, e poi su Los Angeles Free Press.

Nel 1969, John Martin, un ricco imprenditore che ha deciso di fondare una casa editrice, si innamora dei suoi scritti e gli offre 100 dollari al mese per tutta la vita per scrivere i suoi libri e pubblicarli con la Black Sparrow Press. Ce ne fossero oggi di mecenati cosi, grazie John!

È il premio a una vita di stenti e fatica, la vittoria più bella sul ring dell’esistenza, e pazienza per i tanti pugni presi. Quando ce la fai anche le cicatrici diventano poesia.
Hank finalmente si licenzia dall’odiato lavoro alle poste e può dedicarsi all’unica cosa di cui davvero gli freghi qualcosa: scrivere.

A 49 anni, Charles Bukowski é a tutti gli effetti uno scrittore di professione. Meno di un mese dopo il suo licenziamento esce “Post Office”, il libro della consacrazione. Come in tutti i suoi romanzi, eccetto forse “Pulp” , lo scrittore inventa ben poco, raccontando la sua vita e quella degli strani personaggi che incontra. Siamo dalle parti del verismo più nero e crudo, forse un poco esagerato e reso più caustico dal vino, ma certamente autentico.

Dai 50 anni in poi il buon vecchio Hank si riprende con gli interessi quello che la vita non gli ha dato prima. Diventa uno scrittore famoso, tiene reading dall’alto tasso alcolico seguiti da centinaia di studenti che lo venerano come una rockstar, fa l’amore con donne giovani e bellissime, le stesse che anni prima lo denigravano per il suo viso deturpato dall’acne. Viene realizzato persino un film su di lui, “Barfly”, a cui collaborerà senza troppa voglia, con Mickey Rourke a interpretarlo.

La folle lavorazione della pellicola, manco a dirlo, Buk la racconta in uno dei suoi ultimi romanzi: “Hollywood Hollywood!”.

Si riprende tutto con gli interessi, insomma, anche la salute, grazie all’incontro con la giovane Linda Lee Beighle, proprietaria di un ristorante di cibo salutare, aspirante attrice e devota del mistico indiano Meher Baba. Con Linda a fianco, Hank riesce a bere un po’ meno e a condurre una vita meno sregolata, tanto da arrivare a dichiarare che l’incontro con quella biondina gli ha regalato 10 anni di vita.

Dall’incasinata East Hollywood si trasferisce con la Beighle nella comunità rurale di San Pedro, nella zona più a sud di Los Angeles, dove si dedica al giardino, ai suoi amati gatti e alla scrittura. Meno volentieri a incontrare i tanti aspiranti scrittori che ogni giorno bussano alla sua porta, anche se poi un momento lo trova per tutti.

E poi continua a scrivere, ogni giorno, taccuini di racconti e poesie, sempre e immancabilmente buttati giù con la fedele macchina da scrivere.

Abbastanza sereno – non parlo di felicità perché alla felicità le persone intelligenti gli si tengono tutto sommato distanti – Buk ci lascia il 9 marzo del 1994, a 73 anni, colpito da una leucemia fulminante.

Negli ultimi anni si era avvicinato al buddhismo quindi sospetto fosse venuto a patti con la morte, accettandola serenamente. Per lo meno è questo ciò che si percepisce leggendo “Pulp”, il suo ultimo romanzo, e alcune poesie del periodo.
Il buon vecchio Hank probabilmente l’ha spuntata anche stavolta…

D’altronde i cavalli di razza non si vedono all’arrivo?

E tanti auguri Buk!

L’ultimo valzer – Un ricordo di Pau Donés degli Jarabe de Palo

Oggi si è spento Pau Donés, deux ex machina degli Jarabe de Palo.

Quando lo scorso aprile è riapparso dopo più di un anno di silenzio assoluto, ho capito che era tornato per un ultimo delicato valzer prima dei saluti. Magrissimo, sciupato, provato oltre l’immaginabile, eppure affascinante come e più di sempre, Pau ci ha mostrato fino all’ultimo che anche le malattie più terribili si possono affrontare senza lasciarsi spegnere il sorriso sulle labbra.

Be here Now, essere qui adesso, dicono i mistici orientali; che vuol dire controllare le proprie paure sul futuro e i propri rimorsi o rimpianti relativi al passato. I maestri spirituali lo consigliano da secoli ma è molto più facile a dirsi che a farsi, perlomeno per noi uomini comuni. Quasi impossibile se si soffre di una malattia incurabile alla quale, statistiche alla mano, sopravvive solo il 20% dei malati sulla distanza dei cinque anni.

Eppure c’è chi ci riesce, chi trova la forza e l’equilibrio per non sprecare nemmeno un secondo del tempo che gli resta e va avanti a giocare con la vita, ride in faccia alla morte e si gode il presente al meglio delle proprie possibilità.

Ed è così che ha fatto Pau, sin da quel maledetto pomeriggio dell’agosto 2015 quando, di ritorno da un lungo tour in Sud America, gli viene diagnosticato un tumore al colon con metastasi al fegato.

D’altronde una vita sulle montagne russe la sua lo è sempre stata, un costante alternarsi di successi e difficoltà.

Catalano purosangue, nato nel comune spagnolo di Montanuy, comunità autonoma dell’Aragona, l’11 ottobre del 1966, allo start della vita non parte benissimo. Dislessico, iperattivo, perde la mamma morta suicida a sedici anni e rimane da solo con il papà, due fratelli e una sorella più piccoli. Di colpo è costretto a farsi uomo, vietato perdere tempo. Eppure non si abbatte, si rimbocca le maniche e fa tesoro del suicidio della mamma per convincersi ancor più del fatto che la vita sia un bene prezioso e non vada mai sprecato. Senza considerare che prima di andarsene lei gli regala una chitarra elettrica e… niente, ciao, il futuro è scritto anche se allora ancora non lo sa.

Pau si impegna nello studio, lavora il doppio per via della dislessia, ma alla fine si laurea all’Università di Barcellona in Scienze Economiche Aziendali, più per far contento papà che per reale vocazione imprenditoriale. E infatti raccolto il pezzo di carta brucia i libri e si dedica a quello che davvero ama: scrivere canzoni che facciano star bene la gente e poi cantarle.

Mentre si mantiene lavorando in un’agenzia pubblicitaria, nascono gli Jarabe de Palo, che fanno centro già col primo disco, La Flaca; l’omonima canzone, un blues latino che racconta lo struggimento di Pau per una tremendissima mulata incontrata nella magica isola di Cuba, si trasforma in un successo mondiale e lancia il gruppo nel gota dei musicisti latini.

Con gli anni il suono si ammorbidisce, le sfumature stilistiche aumentano ma l’esito continua a mantenersi stabile, disco dopo disco.

Anche qui da noi Pau e i suoi vengono accolti a braccia aperte, un successo mainstream che li porta a esibirsi al Pavarotti and Friends e a collaborare con un altro maestro del pensiero positivo come Jovanotti.

Canzoni come Bonito, Depende, Agua, solo per citare le prime che mi vengono in mente, sono certo sappiano canticchiarle almeno tre italiani su quattro

Nel frattempo Pau fa una figlia, crescendola con tanto amore, gira il mondo, per un po’ abita a Berlino, sempre di corsa, sempre desideroso di vivere al massimo. Le tante estati a Formentera, i piatti di pesce al Quiosco Anselmo, un chiringuito de puta madre, le scalate in montagna, i concerti infiniti in tutto il mondo, la musica, immancabile e fedele compagna di una vita. Una vita sbranata, dicevamo, fino a quel maledetto pomeriggio di agosto, la diagnosi maledetta, le operazioni, la chemioterapia, una lunga riabilitazione piena di speranza. Già perché dopo l’operazione e le terapie quel bastardo di un cancro sembra sparito, e quando per i 50 anni esce il libro e il disco 50 Palos (un doppio album dove Donés duetta con tanti volti noti della musica italiana, dall’amico Jovanotti a Francesco Renga passando per Noemi e Kekko dei Modà…) lui posta una foto bellissima dove sorridente – una maglia dei Velvet Underground, le braccia aperte come ali sul mare blu e il sole caldo sul viso – dichiara al mondo di essere libero dal cancro.

Ma quella libertà dura poco, e ben presto la bestia ritorna.

Lo incontro brevemente a Bologna circa due anni fa, già sciupato ma ancora in forma, purtroppo la prevista intervista salta all’ultimo per un disguido. Conto di recuperarla al successivo concerto italiano, ma poi Pau peggiora e arriva l’inattesa chiusura di ogni attività e di tutti i social degli Jarabe de Palo; consapevole del poco tempo rimasto, Pau legittimamente sceglie di dedicare ciò che gli resta da vivere agli affetti veri, alla figlia Sara…

Il ritorno a sorpresa qualche mese fa, in piena emergenza Covid, lui e la sua chitarra sul terrazzo del nuovo appartamento di Barcellona, la faccia scavata dalla malattia ma il sorriso bellissimo dei giorni belli.

Un nuovo disco, Tragas o escupes, esce a sorpresa il 26 maggio. E qualche giorno prima un ultimo singolo, Eso que tu me das, leggero e allegro come da tradizione, nel cui video Pau canta con la consueta forza e sorride, e gioca con la vita, ancora e ancora, indicando a tutti una strada anche quando tutto dentro di noi, stavolta letteralmente, sta cadendo a pezzi. E intorno a lui e alla band balla la sua adorata Sara, bellissima nei suoi sedici anni, il viso celato da una maschera gentile.

Niente dura per sempre, niente rimane uguale a sé stesso per più di un secondo e quanta tristezza quando le persone belle e pulite lasciano questo mondo.

Ciò detto è molto meglio perdersi che non essersi mai incontrati.

Ciao Mr Pau, grazie di tutto. Ultimo valzer compreso.

Federico Traversa

L’Italia ai tempi del Coronavirus: è tempo di silenzio. di Federico Traversa

C’é chi si incazza perché c’é ancora gente in giro, e chi perché ritiene ingiusto restare a casa. Chi soffre sentendo il peso delle limitazioni e chi se la vive come Jerry Calà in “Villaggio Vacanze”. Ci sono i media e i dottori a fare terrorismo alla tv, e sono pressoché gli stessi che un mese fa banalizzavano tutto all’urlo di “Dai é solo un’influenza”.

Si snocciolano i numeri, si fanno i grafici, si ipotizzano catastrofi.

“Ci stanno rubando la libertà, é l’anticamera del regime” dicono di qua.

“State a casa, coglioni, che se ci ammaliamo tutti é una carneficina” dicono di là.

Su watsup lo zio del cugino della moglie del cognato di tale ha ricevuto un vocale dalla cugina della sorella della madre di tizio che é virologo, e dice che il virus non te lo prendi se mangi 2kg di arance al giorno per un mese.

A patto che tu riesca a sopravvivere alla dieta, questo é sottointeso.

L’incubazione é di 14 giorni.

No sono 21.

Devi stare a un metro.

No a 4.

Il virus d’estate va via.

Macché si mette il costume e sguazza di naso in bocca.

Andra avanti 2 anni.

No in 20 giorni finisce.

È la natura che ci punisce per come trattiamo il pianeta.

Ma quando mai? L’hanno creato gli americani per fiaccare l’economia cinese e l’Italia ci é finita dentro per la storia della via della seta.

Ma non l’aveva passata un serpente in un mercato di Wuhan?

Quei cinesi mangiano di tutto, che schifo.

Ma stai zitto, che ci hanno salvato il culo con mascherine e tutto quanto.

Comunque muoiono solo i vecchi.

Seee, creditelo, mi ha detto una mia amica anestesista che ci sono un sacco di trentenni intubati. Sono morti pure ragazzi di 16 anni, siamo spacciati.

Ma avevano patologie.

No, erano sani.

Moriremo tutti.

Non morirà nessuno.

E comunque l’economia crollerà. Tra meno di un mese saremo tutti a svaligiare i supermercati. Bisogna riaprire tutto, sennó é la fine.

Chiudere chiudere chiudere, sennó ci contagiamo tutti e il sistema sanitario crollerà definitivamente.

È già crollato.

Non è vero, resiste.

Tu ce l’hai la mascherina? Quelle chirurgiche non vanno bene.

Sì che vanno bene

Mia moglie ne ha fatto una con la carta da forno.

Il virus è piccolo, passa.

No non passa, e comunque meglio che niente.

Comunque i casi sono almeno 10 volte di più e per la maggior parte asintomatici quindi la letalità é più bassa.

I morti in casa non finiscono nelle statistiche, é più alta.

Fratello prendila easy, si muore perlopiù col coronavirus, non di coronavirus.

Sciocchezze é il coronavirus che ti ammazza.

Oh ma il campionato? La Champions?

SILENZIO!

Ce la fate ad ascoltare un istante, uno solo, quanto é bello e aiuta il silenzio?

E poi, visto che non si possono trovare risposte là fuori, che ne dite di provare a cavalcare questo silenzio e vedere di trovare qualche piccola risposta dentro noi stessi?

Quando sulla superficie del mare infuria la tempesta e le onde sono alte, basta scendere in profondità di qualche metro e a poco a poco le acque si fanno silenziose, calme e tranquille.

Ripartiamo da questa tranquillità, da questo silenzio. Facciamolo per noi e per rispetto dei tanti che hanno perso la vita, per le loro famiglie decimate.

Tutto cambia, tutto muta. Tutto passa. Lo farà anche il Coronavirus.

Cerchiamo se possibile di imparare tutti qualcosa da questa brutta esperienza, partendo proprio dal ripensare il nostro atteggiamento e i nostri comportamenti verso il mondo.

Attraverso il silenzio plachiamo le urla e limitiamo il più possibile la paura.

Le scelte fatte nel chiasso, col terrore nelle orecchie e il timore negli occhi sono sempre irragionevoli.

E a noi, mai come adesso, serve coraggio e buon senso.